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Plebiscito o Pebliscito, un museo diffuso contro i pregiudizi e le disuguaglianze sociali. Intervista a Giovanna Vinciguerra

Può un quartiere popolare diventare il polo artistico e culturale della città? Ci ha provato Giovanna Vinciguerra – studentessa della sesta edizione del Master Relational Design – col progetto di tesi “Plebiscito o Pebliscito?“, che ha trasformato per un giorno le botteghe di San Cristoforo, a Catania, in piccole gallerie d’arte.

Com’è nata l’idea di un museo diffuso a San Cristoforo?
Il progetto nasce da un’esigenza personale. Sono nata e cresciuta a San Cristoforo e spesso, nonostante i miei studi, mi sono sentita giudicata a causa della mia provenienza. Di questo quartiere, conosciuto più per essere una zona di “malaffare”, volevo restituire un’immagine diversa, lontana dagli stereotipi. Ai pregiudizi volevo contrapporre i valori di una comunità ancora oggi legata agli antichi mestieri che vengono portati avanti nelle piccole botteghe che costellano San Cristoforo. Volevo far conoscere il mio quartiere per come l’ho vissuto e per farlo mi sono servita dell’arte: 70 opere sparse nei piccoli esercizi commerciali e la possibilità di fruirle per chiunque volesse. Il corso “Pratiche Relazionali nell’Arte” tenuto da Gianni Romano – che è stato anche il relatore della mia tesi –è stato certamente un ottimo punto di partenza.

L’allestimento

Arte in bottega: il quartiere come vetrina per le opere o il contrario?
Il limite tra contenuto e contenitore era labile: non più l’opera al centro della mostra, ma gli odori, i colori e le atmosfere stesse di San Cristoforo. L’arte è divenuta il mezzo attraverso cui far conoscere l’anima del quartiere, abbattere i pregiudizi e avvicinare la gente di strada alla cultura e, dall’altra parte, la gente di cultura alla strada.

Cosa intendi quando parli di arte come interstizio sociale?
In questo caso l’atto artistico non è racchiuso nel gesto creativo dell’artista, bensì nelle reazioni che ha provocato. L’opera non è più un un oggetto ma si identifica in una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio in cui sono le relazioni a rappresentarla.

I commercianti del quartiere e le opere

Quali sono stati gli effetti dell’arte relazionale sulla comunità?
In un primo momento i commercianti si sono mostrati restii a ospitare dentro i loro negozi delle opere – forse perché non volevano assumersi così tante responsabilità oppure perché volevano evitare l’impiccio di dover accogliere per l’intera giornata un pubblico diverso dai soliti acquirenti. Eppure al momento del disallestimento erano dispiaciuti e avrebbero voluto tenerle ancora un po’. Nonostante si trattasse di pezzi di arte contemporanea, la comunità ha dato prova di apertura e ricettività nei confronti di istanze lontane dalla consuetudine o, più semplicemente, dalla vita del quartiere.

Quanto è stato importante tessere relazioni per portare a compimento il tuo progetto?
La prima parola su cui si è basato il progetto è stata “fiducia”. Le relazioni hanno avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione di “Plebiscito  o Pebliscito” e non si sono sviluppate su un unico piano, ma su tre livelli: con la comunità, gli artisti e il pubblico. All’inizio non è stato facile: come ho già detto, per prima cosa ho dovuto convincere i commercianti; poi gli artisti, che si sono mostrati impauriti dal contesto in cui sarebbero state esposte le opere e restii a prestarle senza nessun tipo di assicurazione. Per ultimo il pubblico, che in alcuni casi ha storto il naso quando ha saputo che la mostra itinerante si sarebbe svolta nel quartiere di San Cristoforo, come a evidenziare che neanche l’arte può sconfiggere il pregiudizio. Eppure, nonostante tutto, a giochi fatti le reazioni su tutti i fronti si sono svelate molto diverse. I commercianti erano entusiasti e dispiaciuti di dover salutare così presto le opere, che per un giorno avevano abitato le loro botteghe; gli artisti e il pubblico incuriositi e soddisfatti di aver preso parte a un evento che si era mostrato come uno squarcio di consapevolezza tra la bellezza e il degrado di ciò che non avevano mai visto o voluto vedere.

Questo progetto è stato per me motivo di grandi soddisfazioni, è stato il culmine di un percorso complesso e allo stesso tempo gratificante. Relational Design mi ha messo a dura prova ma era quello che cercavo da tempo:  è stato capace di farmi conoscere realtà, linguaggi e prospettive del tutto nuove e inaspettate.

Giovanna Vinciguerra guida i visitatori il giorno dell’inaugurazione
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BienNoLo, l’arte contemporanea che genera innovazione sociale. Intervista a Gianni Romano

Foto: Fabrizio Stipari

Dal 17 al 26 maggio 2019 negli spazi dell’Ex Laboratorio Panettoni Giovanni Cova a Milano si terrà la prima edizione di BienNoLo, la biennale d’arte contemporanea di NoLo, il distretto multietnico della creatività nella periferia nord-est di Milano.
Ne abbiamo parlato con Gianni Romano.

Che cos’è e come nasce BieNoLo?
Negli ultimi anni con ArtCityLab – associazione culturale che abbiamo fondato nel 2015 con Rossana Ciocca – ci siamo impegnati a realizzare progetti di arte pubblica, opere non “protette” da un contesto istituzionale o familiare, dal ristretto circolo del mondo dell’arte, ma esposte alla verifica del territorio, pronte a dimostrare una propria componente educativa o a non lasciare alcun segno, a durare soltanto lo spazio di un passaggio. L’esperienza maturata in questi pochi anni sul territorio milanese, la reazione di un pubblico che è sempre imprevisto, ci ha fatto capire quanto in realtà ogni città abbia bisogno di un ArtCityLab, di un laboratorio permanente, che faccia capire alle varie componenti istituzionali e professionali che innovazione culturale significa innovazione sociale.

Eppure Milano vista da fuori sembra un contesto privilegiato, dove succede di tutto, dove non mancano le proposte. Magari mancava una Biennale d’Arte?
Devo ammettere che questa è una domanda che mi fanno appena esco da Milano. Vivere in un centro urbano già ricco di iniziative non significa che non ci sia altro da fare. Una mostra come BienNoLo vuole dare visibilità ad un grande laboratorio culturale che raramente trova diritto di cronaca nel racconto della città modello che negli ultimi anni è diventata Milano. In ogni ambito della creatività si tende a guardare alla cima senza considerare che questa è il frutto di tantissime persone che contribuiscono ad arricchire quel campo. Se spostiamo l’attenzione dall’arte alla moda questo è ancora più evidente: da una parte i grandi nomi che sono sotto gli occhi di tutti, ma la base è molto larga ed è composta da persone e piccoli marchi che magari lavorano anche con grandi aziende e da altre che hanno vita propria e spesso per un pubblico giovane sono l’unica realtà frequentata. Insomma, non c’è altezza senza base. Curando questa prima edizione di BienNoLo abbiamo voluto restituire al grande pubblico l’immagine di una biennale che mira a registrare e presentare il lavoro svolto negli studi da artisti scelti grazie alle nostre conoscenze, alla loro attività degli ultimi anni, ma anche in base ai limiti che lo spazio della mostra pone a chi si appresta a lavorarci. Certamente le caratteristiche dello spazio industriale che ospita l’esposizione, la mancanza di corrente elettrica, grandi spazi senza tetto e la presenza di vegetazione spontanea, hanno costituito un motivo di selezione più forte di ogni moda corrente.

A proposito dello spazio espositivo, dicci di più sulla location scelta e sul quartiere che la ospita. 
L’ex Laboratorio Panettoni Cova, in una traversa di Viale Monza, è un bellissimo esempio di archeologia industriale. Si tratta di uno spazio già noto agli amanti del design durante il Salone del Mobile. È abbastanza complicato trovare un luogo adatto per tanti artisti, soprattutto se esci dai soliti luoghi nati per presentare mostre. Eppure la storia dell’arte è anche una storia di luoghi (non solo di città), dalle mostre degli impressionisti nello studio del fotografo Nadar a quelle negli appartamenti (tipiche di luoghi in cui manca un sistema dell’arte e che l’attuale crisi economica ha fatto tornare in auge),  dalle mostre nei garage a quelle nelle stanze d’albergo. Hans-Ulrich Obrist realizzò la sua prima mostra nel frigorifero di casa sua! Ogni luogo è deputato all’arte, purché la presenza dell’arte comporti una presenza di senso, perché l’arte sia contemporanea non serve solo presentare l’arte nuova, ma anche a ricordarci ciò che facciamo e ciò che siamo.

Tu sei uno dei quattro curatori: come avete lavorato al progetto?
L’idea di fare una BienNoLo nasce da un invito di Carlo Vanoni, al quale ArtCityLab ha aggiunto Matteo Bergamini. Carlo è autore teatrale e autentico divulgatore dell’arte, com’è evidente dai suoi spettacoli e dal libro A piedi nudi nell’arte appena uscito per Solferino Libri, ma anche dal modo in cui usa i social. Matteo Bergamini è direttore della rivista Exibart ma lo vedo in giro per gallerie da anni, è abituato al clima vivace dell’arte giovane per cui la curatela diventa quasi una pausa di riflessione… Ognuno di noi ha un suo stile che corrisponde al modo in cui ci siamo formati. Per una mostra come questa il vantaggio è stato quello di potersi dividere i compiti, mentre di solito il singolo curatore deve potersi fidare di assistenti capaci. La struttura curatoriale di BienNoLo non è piramidale invece, ci sono quattro curatori e una base di volontari che abbiamo diviso tra logistica, comunicazione e presenza sul campo. Lo spirito di collaborazione e il coinvolgimento del quartiere di Nolo sono la cosa più bella di BienNoLo: pensa che un gruppo di artisti si è associato nel progetto Habitat e quando la mostra chiude alle 20:00 loro aprono i propri studi al pubblico.

Il titolo di questa prima edizione è “eptacaidefobia”: cosa significa e in che modo si lega alle opere, alle installazioni e agli artisti presenti?
Eptacaidefobia è una parola greca. Sembra uno scioglilingua, ma si riferisce alla paura del numero 17. Proprio il 17 maggio c’è l’opening della mostra e quindi abbiamo preso questa fobia dal carattere folcloristico come esempio di tutte le paure, invitando gli artisti a mettere in scena una fobia contro qualsiasi tipo di paura. Naturalmente ci sono paure personali che diventano collettive, come accade alla cronaca dei nostri giorni, e altre che sono figlie di percorsi interiori.

BieNoLo si terrà dal 17 al 26 maggio 2019 negli spazi dell’Ex Laboratorio Panettoni Giovanni Cova, in via Popoli Uniti 11 a Milano.
Visita il sito ufficiale

Gianni Romano fotografato da Fabrizio Stipari
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Pratiche Relazionali nell’Arte – Un pomeriggio all’atelier Mendini

di Salvino Daniele Cardinale

Alessandro Mendini: rinnovatore del design italiano, intellettuale, autore di scritti. Ha lavorato per aziende del calibro di Alessi, Cartier, Swatch, Swarovski. Al suo nome è subito accostato quello della poltrona Proust (esposta in diverse collezioni permanenti). Per la sua attività di designer ha ricevuto numerosi premi, tra i quali – per due volte – l’importante compasso d’oro. Se si deve descrivere lo sviluppo del design italiano del ‘900 non si può non citarlo. Punti forza della persona (e dell’architetto) sono la disponibilità a mettersi in gioco, una personalità giocosa e un impegno organizzativo e divulgativo. Il mondo di Mendini è pieno di colori, di schizzi, di scritti, di personaggi.

Schizzo della poltrona Proust.
Schizzo della poltrona Proust

Nel parlare di icone del design contemporaneo, dinanzi a Mendini e ai suoi progetti ci si confronta con un mondo pieno di sorprese e giochi. L’opera di Mendini si misura con la totalità del processo creativo: dal particolare al generale, dall’oggetto di design al grande edificio, dal cucchiaio alla città; questi sono i suoi confini. Nel 2000 ha fondato insieme al fratello Francesco l’Atelier Mendini: è qui che ci ha accolti  scorso 16 febbraio, in occasione del workshop milanese di Pratiche Relazioni nell’Arte, uno dei moduli del Master Relational Design. Dopo l’accoglienza di rito, Mendini ci porta in giro per l’atelier e, ogni qualvolta il suo sguardo incontra un’opera, un oggetto, uno schizzo, egli si sofferma a spiegarci di cosa si tratti, com’è stato pensato e se è esposto da qualche parte. Oltre a far da cicerone all’interno del suo atelier-museo, il designer ci regala anche pillole di saggezza concernenti il suo lavoro e ci spiega l’importanza di avere persone provenienti da varie parti del mondo all’interno di uno studio: «…E, se il committente non sa parlare inglese, vai a spiegargli in coreano quello che voglio fare». Dopo di ciò passiamo a un altro argomento importante: il suo libro Scritti di domenica, fresco di pubblicazione per Postmediabooks. Lo presenta subito come un libro nato dal suo bisogno di trasmettere delle sensazioni, tramite una serie di scritti.

D: Perché il libro si intitola “Scritti di domenica”? R: Perché devo scrivere quando sono da solo, non sono capace di mettermi lì seduto in atelier e scrivere mentre si sta lavorando anche ad altro,  devo scrivere in una situazione decentrata, per esempio dopo lo yoga. Devo passare a una dimensione più rallentata del cervello. Quindi scrivo di domenica, disegno anche di domenica (disegni che sono separati dagli scritti, alcuni dei quali sono presenti nel libro, N.d.A.). Alcuni dei disegni a cui sto lavorando in questo periodo (che lui chiama “mostre”, N.d.A.) sono disegni da tre ore.

La copertina del libro
La copertina del libro

D: Questi disegni c’entrano con quello che sta facendo per ora? R: No. Io faccio schizzi e da quelli, trasformandoli in cose, poi si arriva ad alcuni lavori. Però sì, tutti i miei lavori partono dagli schizzi e dagli scritti.

D: Lei si occupa anche di altri autori, li descrive, e descrivendoli fa sempre emergere un valore. Qual è il suo rapporto con la nuova generazione di designer e architetti? R: Vengono spesso a trovarmi vari personaggi della scena contemporanea e io prendo questa cosa molto seriamente. Se uno viene da me non è che gli dico buongiorno e basta. Allora si stabiliscono dei contatti – che sono utilissimi, tra l’altro. Queste persone sono di tutti i tipi: dai megalomani, come Karim Rashid, a persone molto introverse, con le quali la conversazione si trasforma in una specie di psicoanalisi. Spesso mi viene richiesto un parere scritto, per una mostra o una rivista. Quando scrivi per una persona, automaticamente stabilisci un feeling, una specie d’innamoramento che ti porta a pensare in quel momento che quello che stai facendo è importantissimo. Scrivere diventa allora una forma di dedizione.

D: Secondo lei a cosa serve l’arte? R: L’arte sul piano pratico non serve a niente e al contempo, secondo me, è una delle cose più importanti, perché il fatto di creare espressione senza nessun collegamento all’utilità le dà una chance di prospettive antropologiche, spirituali, legate al futuro, che nessun’altra attività – anche para-artistica, come l’architettura o il design – riesce ad avere. L’arte è il punto più avanzato del pensiero, cosi come la filosofia.

D: Quindi questo libro di cosa tratta? R: Io ho fatto due libri di scritti, questo qui, raccoglie gli ultimi dieci anni di scritti e li raccoglie in fila, in ordine cronologico, però organizzati anche un po’ per settori: c’è il lavoro fatto per le riviste, il lavoro fatto per le persone, poi il lavoro fatto a commento di progetti di architettura, di design; poi ancora altri scritti teorici, sull’architettura, sull’arte, sul design e anche dei pensieri più generali.

D: Il suo libro quindi ha anche un carattere di manifesto? R: No, c’è qualche piccolo scritto che ha la formula del manifesto, ma il libro non ha la struttura del manifesto, il libro è un “patchwork”. Finite le domande, sul libro e su altri argomenti, ci accompagna verso l’uscita. Lungo il percorso,  passando accanto ad una poltrona Proust modello Magis, interamente in plastica (“la versione da giardino”, come l’ha definita lui), ci concede una foto: questa volta non è lui a sedere sull’iconica Proust ma noi, mentre lui ci sta accanto.

Io e Alessandro Mendini
Io insieme ad Alessandro Mendini

 

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Rossana Ciocca – L’arte contemporanea e le sue forme di sperimentazione in rapporto alla città

di Laura Corradi

Cammino per le vie adiacenti a Porta Venezia in direzione di via Lecco 15, dove ha sede la Galleria Ciocca e dove inoltre abita Rossana. Lungo la strada mi ripeto in testa le domande che vorrei farle, le curiosità che mi ha suscitato quando ero andata a visitare la sua galleria. Mi tornano in mente alcune parole che si ripetono. Non vorrei essere monotona. Ma forse è proprio tra quelle parole che si concentra il mio interesse. Parole che hanno a che fare con lo spazio urbano, l’arte che dalla galleria esce in strada e dallo spazio pubblico entra in uno spazio privato. Ecco. Sono arrivata. Sono in anticipo di cinque minuti. Resto qui un po’ tribolante per alcuni secondi, sulla soglia. Ecco una di quelle parole che si ripetevano. Soglia. Poi entro.

L: Rossana, mi racconti qual è la tua visione di galleria d’arte contemporanea oggi?
R: Credo che a differenza degli anni in cui ho cominciato a lavorare, oggi una galleria si debba occupare più di prodotto culturale che di mercato dell’arte. Se vuoi lo specifico meglio: il mercato dell’arte è quello che si occupa della transizione del singolo pezzo, il prodotto culturale include più aspetti che sono legati proprio alla diffusione di quella che è l’immagine della cultura in generale. Il mercato è una parte importante del sistema dell’arte perché permette a tutti quanti di mantenersi ma in questo momento non si deve solo vendere il prodotto perché esso il più delle volte è elitario, quindi dall’altra parte è necessario cercare in qualche modo di diffondere e vendere quello che è il concetto dell’artista.

Rossana Ciocca nell'opera di Kensuke Koike
Rossana Ciocca nell’opera di Kensuke Koike

L: Mi puoi parlare più nello specifico della tua ricerca culturale come gallerista?
R: Nel 2008 collaborai con un artista tedesco, Wolfgang Wilder, nel progetto Le Terme, che abbiamo realizzato in piazza Oberdan. Credo che quell’esperienza sia stata fondamentale per me e per la mia ricerca: in quel momento ho percepito e compreso le vere potenzialità di impatto sociale che un’opera d’arte può avere relazionandosi con lo spazio pubblico. Da qui nasce questa mia dualità di ricerca: da una parte il lavoro più legato tipicamente allo spazio galleria, quindi diciamo quello più classico; dall’altra lo sviluppo di pratiche performative che si relazionino con lo spazio pubblico, con la città, con il territorio che ci circonda. Centrale per me è quella che possiamo chiamare la politica della soglia. Quella attitudine che ha a che fare con la natura territoriale. L: Ecco, possiamo parlare un’attimo di quello che intendi per “politica della soglia”? R: La soglia è un luogo tra il dentro e il fuori, quindi non è fuori ma non è neanche dentro. È un pezzo in transizione.

L: Questa sensazione di transizione è molto presente già all’interno della tua galleria: uno spazio abitativo ed espositivo, un spazio privato e pubblico allo stesso tempo. Lo trovo molto interessante. Ma parliamo di qualche tuo progetto che ha invaso lo spazio urbano. Raccontami di Cenaconme!.
R: Cenaconme! è un progetto no-profit che nasce da una mia idea e dalla collaborazione con Alessandra Cortellazzi. Il progetto vuole sovvertire il modo tradizionale che abbiamo di vivere lo spazio pubblico, reinventandolo in maniera collettiva. Diciamo che attraverso una cena si va a modificare un luogo della città che non viene vissuto, uno di quei tanti spazi che si attraversano di fretta durante le nostre giornate. Attraverso una cena collettiva si restituisce senso a questo spazio, sia perché momentaneamente viene vissuto realmente, ma anche perché ogni cena affronta e sviluppa un tema specifico. Importante all’interno di Cenaconme! è il valore della scelta di condivisione che chi partecipa fa. Nel senso che questa scelta richiede un’impegno personale, individuale, poiché tutto deve essere portato da casa (sedie, tavoli, cibo), ma il tutto viene facilitato dal gruppo. La condivisione è uno dei punti di forza di Cenaconme!

Cena in bianco, Milano
Cena in bianco, Milano

L: Non può che venirmi in mente il lavoro di Ugo La Pietra sentendo le tue parole riguardo Cenaconme!
R: Beh, senza dubbio. Non ha caso il primo degli appuntamenti di Cenaconme! era proprio dedicato a Ugo La Pietra. La sua affermazione “Abitare è sentirsi ovunque a casa propria” è il filo conduttore di molti di quesi progetti. Per esempio anche ArtCityLab che si occuperà solo di pratiche performative relazionali all’interno dello spazio pubblico. L’obiettivo è quello di far interagire all’interno del progetto diverse soggettività: il cittadino, l’istituzione e le associazioni, per esempio. Insieme dovrebbero far emergere un confronto, un dibattito sul territorio. Vengono attivate pratiche performative e relazionali che potranno essere ripetute in altri luoghi e città. L’idea è quella di produrre dei formati estetici che coinvolgano un pubblico vero. Al mondo dell’arte non piace tanto “format” ma non è grave. Includere e far partecipare il cittadino al processo creativo è alla base di questo progetto.

Ugo La Pietra
Ugo La Pietra

L: Questi di cui abbiamo parlato sono progetti che vivono al di fuori della soglia della tua galleria. Volevo che mi dicessi qualcosa invece su una mostra che mi ha incuriosito molto. Raccontami di Senza Titolo di Fabrizio Bellomo.
R: Il progetto espositivo comprende due lavori temporalmente e geograficamente distanti, ma uniti dalla costante ricerca e ossessione dell’artista nell’osservare il rapporto tra l’individuo e i propri strumenti. Voglio però parlarti di come era stata concepita questa mostra, cioè di come la volevamo realizzare. Ecco, l’idea era quella di creare una doppia mostra. Una parte dentro, in galleria, e una parte fuori, all’interno del contesto urbano. Purtroppo abbiamo dovuto rinunciare alla parte esterna per complicazioni di natura tecnica. Ti spiego. Volevamo occupare uno spazio architettonico della città con dei grandi manifesti dell’opera Pregiudicato rumeno/tunisino di Bellomo. Avevamo individuato un posto, un cavalcavia. La location era perfetta poiché portava con sé questa dinamica in cui c’era comunque un ponte che univa due zone, rimandando così anche alla migrazione in maniera molto forte. Peccato che il cavalcavia in questione fosse sottoposto a sequestro giudiziario e avremmo dovuto quindi farlo illegalmente. Quell’azione nello spazio pubblico sarebbe stata una soluzione ideale, poiché avrebbe dato una continuità molto forte al lavoro.

Fabrizio Bellomo, Pregiudicato rumeno tunisino (2012)
Fabrizio Bellomo, Pregiudicato rumeno tunisino (2012)

Esco dalla galleria. Riavviandomi verso la stazione della metropolitana la mia mente non riesce a non immaginare in maniera molto diversa gli angoli delle stesse strade che avevo percorso poco prima. Vedo azioni artistiche che invadono lo spazio intorno a me, evidenziando nuovi modi di abitare la città. Vedo persone che mangiano collettivamente all’interno dello spazio urbano. La mia mente va ai tremila. Scendo in metropolitana con la convinzione di “voler vivere in una città fantasma e ritrasformarla. Con vista mare però eh”. Come nelle visioni di Rossana.