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BienNoLo, l’arte contemporanea che genera innovazione sociale. Intervista a Gianni Romano

Foto: Fabrizio Stipari

Dal 17 al 26 maggio 2019 negli spazi dell’Ex Laboratorio Panettoni Giovanni Cova a Milano si terrà la prima edizione di BienNoLo, la biennale d’arte contemporanea di NoLo, il distretto multietnico della creatività nella periferia nord-est di Milano.
Ne abbiamo parlato con Gianni Romano.

Che cos’è e come nasce BieNoLo?
Negli ultimi anni con ArtCityLab – associazione culturale che abbiamo fondato nel 2015 con Rossana Ciocca – ci siamo impegnati a realizzare progetti di arte pubblica, opere non “protette” da un contesto istituzionale o familiare, dal ristretto circolo del mondo dell’arte, ma esposte alla verifica del territorio, pronte a dimostrare una propria componente educativa o a non lasciare alcun segno, a durare soltanto lo spazio di un passaggio. L’esperienza maturata in questi pochi anni sul territorio milanese, la reazione di un pubblico che è sempre imprevisto, ci ha fatto capire quanto in realtà ogni città abbia bisogno di un ArtCityLab, di un laboratorio permanente, che faccia capire alle varie componenti istituzionali e professionali che innovazione culturale significa innovazione sociale.

Eppure Milano vista da fuori sembra un contesto privilegiato, dove succede di tutto, dove non mancano le proposte. Magari mancava una Biennale d’Arte?
Devo ammettere che questa è una domanda che mi fanno appena esco da Milano. Vivere in un centro urbano già ricco di iniziative non significa che non ci sia altro da fare. Una mostra come BienNoLo vuole dare visibilità ad un grande laboratorio culturale che raramente trova diritto di cronaca nel racconto della città modello che negli ultimi anni è diventata Milano. In ogni ambito della creatività si tende a guardare alla cima senza considerare che questa è il frutto di tantissime persone che contribuiscono ad arricchire quel campo. Se spostiamo l’attenzione dall’arte alla moda questo è ancora più evidente: da una parte i grandi nomi che sono sotto gli occhi di tutti, ma la base è molto larga ed è composta da persone e piccoli marchi che magari lavorano anche con grandi aziende e da altre che hanno vita propria e spesso per un pubblico giovane sono l’unica realtà frequentata. Insomma, non c’è altezza senza base. Curando questa prima edizione di BienNoLo abbiamo voluto restituire al grande pubblico l’immagine di una biennale che mira a registrare e presentare il lavoro svolto negli studi da artisti scelti grazie alle nostre conoscenze, alla loro attività degli ultimi anni, ma anche in base ai limiti che lo spazio della mostra pone a chi si appresta a lavorarci. Certamente le caratteristiche dello spazio industriale che ospita l’esposizione, la mancanza di corrente elettrica, grandi spazi senza tetto e la presenza di vegetazione spontanea, hanno costituito un motivo di selezione più forte di ogni moda corrente.

A proposito dello spazio espositivo, dicci di più sulla location scelta e sul quartiere che la ospita. 
L’ex Laboratorio Panettoni Cova, in una traversa di Viale Monza, è un bellissimo esempio di archeologia industriale. Si tratta di uno spazio già noto agli amanti del design durante il Salone del Mobile. È abbastanza complicato trovare un luogo adatto per tanti artisti, soprattutto se esci dai soliti luoghi nati per presentare mostre. Eppure la storia dell’arte è anche una storia di luoghi (non solo di città), dalle mostre degli impressionisti nello studio del fotografo Nadar a quelle negli appartamenti (tipiche di luoghi in cui manca un sistema dell’arte e che l’attuale crisi economica ha fatto tornare in auge),  dalle mostre nei garage a quelle nelle stanze d’albergo. Hans-Ulrich Obrist realizzò la sua prima mostra nel frigorifero di casa sua! Ogni luogo è deputato all’arte, purché la presenza dell’arte comporti una presenza di senso, perché l’arte sia contemporanea non serve solo presentare l’arte nuova, ma anche a ricordarci ciò che facciamo e ciò che siamo.

Tu sei uno dei quattro curatori: come avete lavorato al progetto?
L’idea di fare una BienNoLo nasce da un invito di Carlo Vanoni, al quale ArtCityLab ha aggiunto Matteo Bergamini. Carlo è autore teatrale e autentico divulgatore dell’arte, com’è evidente dai suoi spettacoli e dal libro A piedi nudi nell’arte appena uscito per Solferino Libri, ma anche dal modo in cui usa i social. Matteo Bergamini è direttore della rivista Exibart ma lo vedo in giro per gallerie da anni, è abituato al clima vivace dell’arte giovane per cui la curatela diventa quasi una pausa di riflessione… Ognuno di noi ha un suo stile che corrisponde al modo in cui ci siamo formati. Per una mostra come questa il vantaggio è stato quello di potersi dividere i compiti, mentre di solito il singolo curatore deve potersi fidare di assistenti capaci. La struttura curatoriale di BienNoLo non è piramidale invece, ci sono quattro curatori e una base di volontari che abbiamo diviso tra logistica, comunicazione e presenza sul campo. Lo spirito di collaborazione e il coinvolgimento del quartiere di Nolo sono la cosa più bella di BienNoLo: pensa che un gruppo di artisti si è associato nel progetto Habitat e quando la mostra chiude alle 20:00 loro aprono i propri studi al pubblico.

Il titolo di questa prima edizione è “eptacaidefobia”: cosa significa e in che modo si lega alle opere, alle installazioni e agli artisti presenti?
Eptacaidefobia è una parola greca. Sembra uno scioglilingua, ma si riferisce alla paura del numero 17. Proprio il 17 maggio c’è l’opening della mostra e quindi abbiamo preso questa fobia dal carattere folcloristico come esempio di tutte le paure, invitando gli artisti a mettere in scena una fobia contro qualsiasi tipo di paura. Naturalmente ci sono paure personali che diventano collettive, come accade alla cronaca dei nostri giorni, e altre che sono figlie di percorsi interiori.

BieNoLo si terrà dal 17 al 26 maggio 2019 negli spazi dell’Ex Laboratorio Panettoni Giovanni Cova, in via Popoli Uniti 11 a Milano.
Visita il sito ufficiale

Gianni Romano fotografato da Fabrizio Stipari
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Rossana Ciocca – L’arte contemporanea e le sue forme di sperimentazione in rapporto alla città

di Laura Corradi

Cammino per le vie adiacenti a Porta Venezia in direzione di via Lecco 15, dove ha sede la Galleria Ciocca e dove inoltre abita Rossana. Lungo la strada mi ripeto in testa le domande che vorrei farle, le curiosità che mi ha suscitato quando ero andata a visitare la sua galleria. Mi tornano in mente alcune parole che si ripetono. Non vorrei essere monotona. Ma forse è proprio tra quelle parole che si concentra il mio interesse. Parole che hanno a che fare con lo spazio urbano, l’arte che dalla galleria esce in strada e dallo spazio pubblico entra in uno spazio privato. Ecco. Sono arrivata. Sono in anticipo di cinque minuti. Resto qui un po’ tribolante per alcuni secondi, sulla soglia. Ecco una di quelle parole che si ripetevano. Soglia. Poi entro.

L: Rossana, mi racconti qual è la tua visione di galleria d’arte contemporanea oggi?
R: Credo che a differenza degli anni in cui ho cominciato a lavorare, oggi una galleria si debba occupare più di prodotto culturale che di mercato dell’arte. Se vuoi lo specifico meglio: il mercato dell’arte è quello che si occupa della transizione del singolo pezzo, il prodotto culturale include più aspetti che sono legati proprio alla diffusione di quella che è l’immagine della cultura in generale. Il mercato è una parte importante del sistema dell’arte perché permette a tutti quanti di mantenersi ma in questo momento non si deve solo vendere il prodotto perché esso il più delle volte è elitario, quindi dall’altra parte è necessario cercare in qualche modo di diffondere e vendere quello che è il concetto dell’artista.

Rossana Ciocca nell'opera di Kensuke Koike
Rossana Ciocca nell’opera di Kensuke Koike

L: Mi puoi parlare più nello specifico della tua ricerca culturale come gallerista?
R: Nel 2008 collaborai con un artista tedesco, Wolfgang Wilder, nel progetto Le Terme, che abbiamo realizzato in piazza Oberdan. Credo che quell’esperienza sia stata fondamentale per me e per la mia ricerca: in quel momento ho percepito e compreso le vere potenzialità di impatto sociale che un’opera d’arte può avere relazionandosi con lo spazio pubblico. Da qui nasce questa mia dualità di ricerca: da una parte il lavoro più legato tipicamente allo spazio galleria, quindi diciamo quello più classico; dall’altra lo sviluppo di pratiche performative che si relazionino con lo spazio pubblico, con la città, con il territorio che ci circonda. Centrale per me è quella che possiamo chiamare la politica della soglia. Quella attitudine che ha a che fare con la natura territoriale. L: Ecco, possiamo parlare un’attimo di quello che intendi per “politica della soglia”? R: La soglia è un luogo tra il dentro e il fuori, quindi non è fuori ma non è neanche dentro. È un pezzo in transizione.

L: Questa sensazione di transizione è molto presente già all’interno della tua galleria: uno spazio abitativo ed espositivo, un spazio privato e pubblico allo stesso tempo. Lo trovo molto interessante. Ma parliamo di qualche tuo progetto che ha invaso lo spazio urbano. Raccontami di Cenaconme!.
R: Cenaconme! è un progetto no-profit che nasce da una mia idea e dalla collaborazione con Alessandra Cortellazzi. Il progetto vuole sovvertire il modo tradizionale che abbiamo di vivere lo spazio pubblico, reinventandolo in maniera collettiva. Diciamo che attraverso una cena si va a modificare un luogo della città che non viene vissuto, uno di quei tanti spazi che si attraversano di fretta durante le nostre giornate. Attraverso una cena collettiva si restituisce senso a questo spazio, sia perché momentaneamente viene vissuto realmente, ma anche perché ogni cena affronta e sviluppa un tema specifico. Importante all’interno di Cenaconme! è il valore della scelta di condivisione che chi partecipa fa. Nel senso che questa scelta richiede un’impegno personale, individuale, poiché tutto deve essere portato da casa (sedie, tavoli, cibo), ma il tutto viene facilitato dal gruppo. La condivisione è uno dei punti di forza di Cenaconme!

Cena in bianco, Milano
Cena in bianco, Milano

L: Non può che venirmi in mente il lavoro di Ugo La Pietra sentendo le tue parole riguardo Cenaconme!
R: Beh, senza dubbio. Non ha caso il primo degli appuntamenti di Cenaconme! era proprio dedicato a Ugo La Pietra. La sua affermazione “Abitare è sentirsi ovunque a casa propria” è il filo conduttore di molti di quesi progetti. Per esempio anche ArtCityLab che si occuperà solo di pratiche performative relazionali all’interno dello spazio pubblico. L’obiettivo è quello di far interagire all’interno del progetto diverse soggettività: il cittadino, l’istituzione e le associazioni, per esempio. Insieme dovrebbero far emergere un confronto, un dibattito sul territorio. Vengono attivate pratiche performative e relazionali che potranno essere ripetute in altri luoghi e città. L’idea è quella di produrre dei formati estetici che coinvolgano un pubblico vero. Al mondo dell’arte non piace tanto “format” ma non è grave. Includere e far partecipare il cittadino al processo creativo è alla base di questo progetto.

Ugo La Pietra
Ugo La Pietra

L: Questi di cui abbiamo parlato sono progetti che vivono al di fuori della soglia della tua galleria. Volevo che mi dicessi qualcosa invece su una mostra che mi ha incuriosito molto. Raccontami di Senza Titolo di Fabrizio Bellomo.
R: Il progetto espositivo comprende due lavori temporalmente e geograficamente distanti, ma uniti dalla costante ricerca e ossessione dell’artista nell’osservare il rapporto tra l’individuo e i propri strumenti. Voglio però parlarti di come era stata concepita questa mostra, cioè di come la volevamo realizzare. Ecco, l’idea era quella di creare una doppia mostra. Una parte dentro, in galleria, e una parte fuori, all’interno del contesto urbano. Purtroppo abbiamo dovuto rinunciare alla parte esterna per complicazioni di natura tecnica. Ti spiego. Volevamo occupare uno spazio architettonico della città con dei grandi manifesti dell’opera Pregiudicato rumeno/tunisino di Bellomo. Avevamo individuato un posto, un cavalcavia. La location era perfetta poiché portava con sé questa dinamica in cui c’era comunque un ponte che univa due zone, rimandando così anche alla migrazione in maniera molto forte. Peccato che il cavalcavia in questione fosse sottoposto a sequestro giudiziario e avremmo dovuto quindi farlo illegalmente. Quell’azione nello spazio pubblico sarebbe stata una soluzione ideale, poiché avrebbe dato una continuità molto forte al lavoro.

Fabrizio Bellomo, Pregiudicato rumeno tunisino (2012)
Fabrizio Bellomo, Pregiudicato rumeno tunisino (2012)

Esco dalla galleria. Riavviandomi verso la stazione della metropolitana la mia mente non riesce a non immaginare in maniera molto diversa gli angoli delle stesse strade che avevo percorso poco prima. Vedo azioni artistiche che invadono lo spazio intorno a me, evidenziando nuovi modi di abitare la città. Vedo persone che mangiano collettivamente all’interno dello spazio urbano. La mia mente va ai tremila. Scendo in metropolitana con la convinzione di “voler vivere in una città fantasma e ritrasformarla. Con vista mare però eh”. Come nelle visioni di Rossana.