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Edizione 2016

Adele Giacoia: migliorare l’esperienza museale e la fruizione del patrimonio artistico attraverso il Service Design

Adele Giacoia è nata nel cuore della Magna Grecia e cresciuta in un paese che leggenda vuole essere stato fondato dal padre di Ulisse. Ha studiato Lettere a Roma, dove ha vissuto per quasi 10 anni per poi dividersi tra Milano, Trieste, Genova, lavorando in ambiti didattici, storico-artistici e museali. In mezzo a tutto questo peregrinare, Adele è stata anche una studentessa del Master Relational Design.

Cosa ti ha spinto a intraprendere questo percorso?
La prospettiva di un viaggio, una sorta di moderno grand tour alla scoperta del mondo del design e della comunicazione, rappresentava un’occasione di esplorazione e sperimentazione.

Cosa hai fatto dopo la conclusione del master e in che modo Relational Design ti ha ispirata o aiutata nei tuoi progetti?
Il master mi ha aiutata ad affrontare la progettazione in modo modulare e scalabile, sviluppando strategie ad hoc per ogni tipo di situazione, anche le più assurde.

“Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.”

Ho incontrato esseri mitologici con un solo occhio, ma ipertecnologico; con 999 teste, con corpi composti da quattro diversi elementi, sirene dai verdi crini e dall’anglofona favella, greggi di capre scolarizzate, elegantissime arpie dagli affilati artigli digitali, divinità social, asini alati, mostri sottomarini musealizzati, pazienti tessitrici di trame utopiche, sfingi dagli infiniti enigmi, splendidi draghi e cavalieri imbranati, intrepidi lanciatori di dadi, affascinanti affabulatori, curiosi esploratori e coraggiosi museomixer.

Hai svolto il tirocinio del master al Museo del Mare di Genova: di cosa ti sei occupata?
Non il responso dell’Oracolo di Delfi, ma la Fondazione Fitzcarraldo e MeltigPro mi hanno destinata a Genova, al Mu.MA – Istituzione dei Musei del Mare e delle Migrazioni, per sviluppare un’azione pilota di Audience Development condotta all’interno del progetto europeo Connect – Connecting audiences // Knowledge in Audience Development.
Grazie al preziosissimo supporto di Giovanna Rocchi mi sono occupata dell’ideazione, analisi, progettazione, organizzazione, sviluppo, grafica e comunicazione di due progetti: uno di didattica laboratoriale, Postcard Kit, mirato ad avvicinare le scolaresche alla conoscenza dei fenomeni migratori, osservati da un punto di vista storico e approcciati in una modalità pratica e ludica; e un altro più articolato e complesso, sPASSI col Mu.MA?, che riguarda tutte le quattro sedi (Galata – Museo del Mare, Lanterna, Museo Navale di Pegli e Commenda) dell’Istituzione in un’ottica di riqualificazione e rafforzamento dei legami territoriali.

sPASSI col Mu.MA? è diventato anche il tuo progetto di tesi: quali sono i vantaggi del Service Design per i musei?
sPASSI col Mu.MA? nasce dalla convinzione che un museo possa essere un elemento fondamentale per la vita culturale della città e che in qualità di vero e proprio organismo, possa permeare e, al tempo stesso, farsi permeare dal territorio. Il progetto vuole porre il Mu.MA in una condizione di dialogo con la comunità.
Nello specifico, si tratta di un percorso a tappe alla scoperta delle quattro sedi dell’Istituzione: una serie di passeggiate durante le quali, grazie anche all’intervento di ospiti speciali, la storia della città e quella del patrimonio conservato nei musei si fondono per dare vita a narrazioni inedite.
L’obiettivo è quello di migliorare, stimolare e accrescere la partecipazione cittadina e, perché no, anche le relazioni tra i cittadini.
I consigli di Vincenzo Di Maria e Claudia Busetto, i miei relatori, sono stati fondamentali per ampliare la mia prospettiva e progettare l’esperienza di un servizio tenendo conto dei comportamenti, delle necessità e delle preferenze degli utenti. Il Service Design può sicuramente essere utile per strutturare un’offerta tesa a migliorare la fruizione museale, rendere più accessibile il patrimonio, più chiari i contenuti, più semplici i passaggi e più piacevoli le visite.

Come descriveresti Relational Design?
Un acceleratore di particelle. Il suo scopo principale è farti acquisire la massima energia possibile, in modo che nell’urto con i bersagli reali una parte di essa si trasformi in nuove particelle dotate di massa – critica: una soglia quantitativa minima oltre la quale si ottiene un mutamento qualitativo.

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PUSH, l’innovazione che parte dalle persone – Master Relational Design

Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Toti Di Dio, Mauro Filippi e Domenico Schillaci, fondatori di PUSH e docenti di Service Design all’interno del Master  Relational Design.

Cos’è PUSH e di cosa si occupa?
(D) Ciao! PUSH è un laboratorio di design per l’innovazione urbana con base a Palermo. Progettiamo e sviluppiamo servizi con l’obiettivo di rendere le città più sostenibili e i cittadini più felici e lo facciamo attraverso progetti di ricerca applicata, attività di partecipazione o iniziative di innovazione sociale.
Allo stesso tempo ideiamo programmi di formazione incentrati su questi temi e ogni tanto organizziamo anche qualche evento a Palermo per parlare di cose che ci interessano.
Se resta tempo ci trovate al Monkey Bar in piazza Sant’Anna (sotto il nostro ufficio) a bere un caffè o una birra a seconda dell’ora.

Cosa vuol dire per voi Service Design?
(D) Lo consideriamo un approccio estremamente utile per affrontare criticità e risolvere problemi, che si tratti di migliorare l’esperienza dei cittadini o di facilitare l’interazione tra diversi attori in un determinato contesto.

Avete deciso di intraprendere questa avventura in Sicilia, perché?
(T) PUSH nasce a Palermo nel 2013 con l’ambizione di essere una risposta costruttiva ed efficace alla crisi economica e culturale che si soffre ormai da anni in Italia e soprattutto al Sud. Nasce da siciliani che, dopo aver studiato e lavorato come progettisti in giro per il mondo, sognavano di poter vivere e costruire valore a casa loro.
PUSH è la scommessa di un gruppo di amici si sono ostinati a credere che si possa parlare di “innovazione” e “tecnologia” anche in Sicilia, e che sono anche convinti che su questi due concetti si possa basare una strategia vincente per il rilancio dell’intero territorio. Non bisogna essere Google o IBM per spingere all’innovazione un territorio, anzi. Serve solo un po’ di coraggio, metodo e tanta determinazione per farsi artefici di importanti trasformazioni.

Lavorare a Palermo pensiate abbia reso il vostro lavoro più difficile o più stimolante? (T) La scelta di Palermo non è stata casuale: per alcuni di noi è la città natale (per gli altri, trapanesi e alcamesi, ormai una seconda casa), quella in cui desideriamo lavorare, ma soprattutto è uno di quei luoghi “a margine” in cui poter testare soluzioni e progetti. Palermo è un luogo ricchissimo, ha una storia sconfinata e talenti eccezionali, ma ha anche troppe criticità che vogliamo risolvere e affrontare, poco a poco. Ci ripetiamo sempre che se un progetto funziona a Palermo può funzionare dappertutto. Le difficoltà in questi anni non sono di certo mancate e spesso non abbiamo trovato il supporto necessario o abbiamo dovuto penare per ottenerlo, ma è stato sempre stimolante e nonostante tutto siamo riusciti a tirare fuori e testare a Palermo progetti che ci hanno consentito sì di restare legati al territorio, ma anche di avvicinarci tanto all’Europa e al resto del pianeta. Questo è un modo per ridare a Palermo qualcosa e che ci fa sentire meno soli.

Al centro di molti dei vostri progetti mettete le persone e le comunità di cui fanno parte. Quale di questi vi ha restituito di più a livello personale?
(M) Lavorare con le comunità di quartiere ci ha sempre regalato grandi soddisfazioni, restituendoci un bagaglio di esperienze davvero difficile da quantificare. Comunità però sono state anche in un certo senso quelle degli studenti e dei partecipanti ai nostri corsi e ai laboratori: le “intensive school” o le “service jam” che abbiamo co-progettato e realizzato in rete ad esempio sono stati dei momenti di profondo scambio e crescita professionale. Utente, cittadino o studente, il nostro principale interlocutore è sempre la persona.   

Di recente un vostro progetto, Borgo Vecchio Factory, ha ricevuto la menzione d’onore dalla giuria del Premio Compasso d’Oro ADI 2018. Diteci di più!
(M) Borgo Vecchio Factory per noi rappresenta una delle prime vere sperimentazioni progettuali su scala urbana e di quartiere: un progetto bottom-up che mette insieme tecnologia (crowdfunding), arte (street art) ed educazione (workshop). In partnership con l’associazione Per Esempio – che da anni si occupa di educazione non formale nel quartiere Borgo Vecchio di Palermo per far fronte al problema della dispersione scolastica – abbiamo ideato insieme allo street artist comasco Ema Jons un ciclo di laboratori di arte urbana con il coinvolgimento di vari artisti. La campagna di crowdfunding ha ottenuto in un mese il 170% del monte richiesto e ha permesso di sperimentare nel quartiere una pratica di coinvolgimento e animazione del che ha dato vita in poco tempo ad un vero e proprio museo a cielo aperto tra le vie. Sono stati realizzati circa 30 grandi murales, coinvolti una sessantina di bambini di varie fasce d’età, riqualificato il campetto di calcio e tenuti dei workshop di ricamo, poster art, restauro creativo, disegno e pittura.  

Come entrano in gioco le nuove tecnologie nei progetti di Service Design per le comunità?
Attraverso la tecnologia PUSH cerca di stimolare l’interazione con le comunità attraverso la tecnologia. Attraverso il progetto Sant’Anna Jamming ad esempio, dopo un workshop che ha visto coinvolti vari studenti di architettura e design per riattivare Piazza Sant’Anna all’indomani della pedonalizzazione, è stata coinvolta la cittadinanza nella votazione del progetto migliore da proporre poi all’amministrazione comunale. Con il progetto Open Tour sono stati utilizzati i dati messi a disposizione dal comune di Palermo per offrire un servizio gratuito di mappature dei punti di interesse culturale ed è stata data ai cittadini la possibilità di contribuire con segnalazioni e datathon. Il progetto ha poi avuto un seguito a Milano e presto anche a Bari. E infine il crowdfunding, che è servito a finanziare dal basso due progetti in aree marginali, come nel caso di Borgo Vecchio Factory e di Danisinni Circus (all’interno del più ampio progetto Rambla Papireto).

Nel vostro lavoro non c’è solo la progettazione: spesso siete impegnati in attività didattiche come il Master Relational Design o altri workshop in Italia e all’estero, dove in pochi giorni – o addirittura poche ore – dovete riuscire a trasmettere un metodo ai vostri studenti. Qual è il vostro approccio all’insegnamento?
(D) Semplicemente cerchiamo di trasmettere quello che impariamo ogni giorno con il nostro lavoro e la nostra attività di ricerca. Per noi è un’attività molto utile perché ci consente di sintetizzare e organizzare tutte le informazioni, i casi studio e gli strumenti che quotidianamente utilizziamo in modo coerente e allo stesso modo in un certo senso ci obbliga a restare sempre aggiornati, il che nel nostro ambito è un aspetto fondamentale.
L’attività didattica ci piace davvero tanto perché ci consente ogni volta di provare qualcosa di nuovo e non esagero quando dico che per noi è anche un modo per imparare tanto. Il nostro approccio è molto informale e incentrato sull’azione: che si tratti di costruire un prototipo, intervistare delle persone, disegnare un’interfaccia o girare un video solo realizzando qualcosa e testandola si riesce a capire se può funzionare davvero.  

A proposito del master: proprio quest’anno avete tenuto a Palermo il summer camp Design for Urban & Social Innovation, in cui molti degli studenti venivano da altre città d’Italia o addirittura da altre nazioni: parlateci di questa esperienza e di come avete affrontato questa “sfida”.
(D) Ci piaceva l’idea di utilizzare Palermo come playground per gli studenti, quindi, dopo aver passato la prima giornata a girare la città incontrando imprenditori, attivisti e artisti locali abbiamo chiesto loro di individuare uno specifico bisogno e di progettare un servizio che fosse in grado di risolverlo.  Naturalmente all’inizio c’è stato un po’ di smarrimento, del resto non è facile calarsi da subito in un contesto urbano nuovo e comprenderne dinamiche e relazioni, così come riuscire a individuare le informazioni chiave quando si è bombardati da una enorme quantità di input, ma anche questo fa parte del processo su cui vogliamo che i ragazzi si confrontino.
È stato bello vedere giovani provenienti da tante realtà diverse confrontarsi con la nostra città, cercare di capirla e sforzarsi per pensare a qualcosa che possa produrre un cambiamento positivo in così pochi giorni; è stato stancante ma alla fine eravamo tutti soddisfatti e crediamo che questa sia la cosa più importante.

Qual è la connessione fra il Service Design e il Relational Design?
(D) Qualsiasi servizio ha come obiettivo quello di offrire ai chi lo utilizza la migliore esperienza possibile; ogni esperienza a sua volta si basa su una serie di relazioni e interazioni. In quest’ottica è fondamentale essere in grado di progettare con e non solo per le persone, conoscere bene i nuovi media digitali ed essere in grado di comunicare in modo chiaro ed efficace; per questo approfondire il design delle relazioni è importante. Per il prossimo anno abbiamo in programma un nuovo modulo all’interno del Master Relational Design ma preferiamo non svelare nulla, anche perché l’effetto sorpresa è una delle cose su cui puntiamo! L’unica cosa che possiamo dire è che sarà diverso da quello dello scorso anno e come ogni volta cercheremo di proporre qualcosa di nuovo.

 

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Claudia Busetto e Vincenzo Di Maria: dai prodotti alle esperienze, service design e relazionalità

Claudia Busetto e Vincenzo Di Maria sono i fondatori di commonground, un’organizzazione che porta il design e la progettazione incentrata sull’utente in ambiti di innovazione sociale; saranno nostri docenti per il Summer Camp – Relational Service Design, negli spazi di Impact Hub Siracusa, dal 17 al 24 giugno.

 

Service design: quando e perchè l’interesse si è spostato dai prodotti alle esperienze?

In sintesi, compriamo meno prodotti da possedere e consumare e accediamo a più servizi o paghiamo più volentieri per esperienze da vivere.

È un percorso strettamente legato ai cambiamenti socio-economici dell’età contemporanea, come il boom economico degli anni 60 ha promosso il design industriale così la crescente importanza del settore terziario ha aperto la strada al design dei servizi. I prodotti non sono scomparsi, ma è aumentato il contorno, la cura del dettaglio e dell’esperienza dell’utente, e i consumatori stessi sono diventati più esigenti.

In Italia oggi i servizi rappresentano il settore più importante dell’economia, sia per numero di occupati che per valore aggiunto, e la tecnologia e internet hanno amplificato questo processo in atto, permettendo la nascita di servizi sempre più smaterializzati: l’home banking, i negozi di e-commerce, fino ad arrivare a piattaforme come netflix in cui non c’è nessuna componente che si possa toccare, ma allo stesso tempo è altissima la richiesta di customizzazione e cura dei dettagli.

 

Quali sono, a vostro avviso, i settori che oggi, più di altri, avrebbero bisogno di questo cambio di prospettiva?

Vivendo in Sicilia viene facile pensare ai servizi infrastrutturali: i trasporti, la ricettività, ma anche tutti i servizi che ruotano intorno all’esperienza turistica, dalle proposte enogastronomiche ai percorsi esperienziali. Ma sono anche i settori in cui più facilmente si sperimenta, perché ci sono clienti pronti a pagare per esperienze sempre più personalizzate e servizi più funzionali. La vera sfida è nella progettazione dei servizi pubblici, dove non abbiamo utenti-clienti, ma cittadini: eppure sono i contesti in cui la progettazione ha un impatto enorme, perché riguarda milioni di persone, con effetti che si riverberano su intere famiglie. Pensiamo per esempio ad azioni comuni e diffuse come fare le analisi del sangue, iscrivere il figlio a scuola, pagare le imposte, quante volte è facile trovarsi intrappolati o bloccati nei meandri della burocrazia o in situazioni intricate? La progettazione non può risolvere tutti i problemi, ma può sicuramente aiutare a migliorare le cose.

E poi ci sono i settori in cui tutto è davvero da costruire, come le esperienze di emergenza sociale e culturale: pensiamo per esempio a tutto ciò che ruota intorno ai fenomeni di migrazione e ai salvataggi in mare, fino ai servizi carenti nelle strutture di prima assistenza. In questi contesti si parla di service design in ottica meno commerciale e si entra nell’ambito dell’innovazione sociale, un mondo in cui il buon design (quello per cui si pagano i professionisti) può portare tanto valore e avere un impatto enorme.

 

Un’anticipazione di quello che approfondiremo durante il vostro Summer Camp: se doveste scegliere un progetto di servizio collaborativo e partecipato dell’ultimo anno come il più interessante e innovativo, quale sarebbe?

Come vedremo durante il summer camp esistono diversi gradi di “relazionalità” all’interno di un servizio: i servizi relazionali al 100%, quelli in cui fornitore e fruitore del servizio e il fuitore coincidono, sono in realtà una minoranza, ma sono sicuramente i più complessi e allo stesso tempo i più delicati, perché si fondano sull’idea che tutti rispettino certe regole, ma allo stesso tempo permettono una libertà di interpretazione e comportamento estreme. Se nei servizi tradizionali il cliente ha sempre ragione è anche perché il fornitore si attiene a regole ferree, ma cosa succede quando dall’altra parte c’è una persona come noi? Progettualmente si possono controllare e prevenire le agenzie immobiliari mascherate su airbnb, ma non per esempio la scortesia di un autista di Uber, o le recensioni bugiarde su tripadvisor. Per un progettista è molto stimolante osservare i risvolti inaspettati, analizzare i mille modi in cui le persone possono usare o abusare di un servizio.

Un servizio relazionale al cubo è https://gnammo.com/, o in generale le piattaforme di social eating, perché il valore dell’offerta non è legato solo al cibo, ma a qualcosa di profondamente immateriale come il piacere di mangiare insieme: paghiamo per una cena, ma anche per un potenziale nuovo legame con una persona, per un’esperienza speciale che magari si ripeterà. E se pensiamo al social eating è interessante notare che non si tratta di idee “nuove”, perché per esempio i Paladar (ristoranti casalinghi) sono diffusi a Cuba da almeno 30 anni, permettendo a molte famiglie di sostentarsi aggirando la crisi economica, e ai turisti di avere un assaggio di vera atmosfera locale. Insomma il bisogno di socialità o di sharing economy c’è forse sempre stato, quello che cambia oggi è il ruolo della tecnologia, che amplifica e avvicina, rendendo sempre più facili e accessibili le interazioni.
Claudia Busetto & Vincenzo Di Maria, commonground

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City-Rural Connections – Creare relazioni, non transazioni, tra individui

Abbiamo il piacere di introdurre una novità per il blog di Relational Design, il racconto dei workshop da chi li vive in prima persona: Bruna Crapanzano, studentessa dell’edizione 2016-17, sarà il nostro reporter ufficiale sul campo. Questo il suo racconto dell’esperienza appena conclusa con John Thackara ad Abadir.

La prima cosa che noti arrivando a Catania in una giornata di sole siciliano è il profilo dell’Etna. Impassibile osservatore della città, non puoi fare altro se non continuare a ricercarlo con lo sguardo mentre cammini per le strade.

L’imprinting è immediato, la connessione tra la città e il vulcano imprescindibile.

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Connettere, è proprio questo verbo che diventa il tema centrale che il workshop vuole affrontare.
Parliamo di rapporto tra città e campagna, parliamo di urbano e agricolo, parliamo di presente e futuro che convivono, parliamo di City-Rural Connections.

 

Partendo da questi presupposti, si entra sin da subito nel vivo del progetto con una discussione che coinvolge attivamente gli studenti e John Thackara, autore di numerosi testi sull’argomento e docente del modulo. Si analizzano esempi e si valutano punti di forza o debolezza di progetti sparsi per l’Italia e per il mondo.

Ma per ribadire il rapporto non astratto con queste tematiche è importante conoscere dal vivo chi li mette in pratica ogni giorno, per cui si parte alla volta della Piana di Catania per vedere da vicino alcune di queste realtà.

 

Casa delle acque è la nostra prima tappa, ci accolgono Nirav e le persone che con lui gestiscono la masseria. Dopo averci fatto accomodare ci raccontano la loro storia: il piacere di vivere nella Valle del Simeto, la loro filosofia di vita incentrata su accoglienza e partecipazione, l’autoproduzione di frutta e verdure ma anche incontri, seminari, lavoro con scuole e condivisione.

 

Tra gli orti di Saja Project arriviamo dopo una camminata pomeridiana. Parliamo prima con Roberto e poi con Salvo. Roberto ci spiega i loro metodi di coltura e l’importanza della biodiversità. Salvo ci racconta il percorso che lo ha portato ad avviare Saja e i valori che regolano il progetto basato sul restituire all’uomo l’autonomia nel sostentamento senza per questo motivo doversi isolare dalla società.

 

Il terzo ospite che incontriamo è Turi (Salvatore), subito pronto a narrarci il progetto Sicilia Integra nato insieme a Gaia Education e all’Università di Catania, che punta a creare un connubio tra sostenibilità e integrazione. Mettendo a disposizione di volontari e rifugiati attività di formazione sull’agricoltura sostenibile da attuare in Sicilia e esportare poi nei rispettivi Paesi di provenienza.

workshop

Nei giorni successivi è tutto in evoluzione, tra dialoghi accesi e progetti da costruire in tre giorni. Il mantra di John è chiaro è necessario creare relazioni e non transazioni tra individui”.

 

A metà del quarto giorno è il momento di presentare ciò che si è prodotto.

Quattro progetti, ognuno dei quali esplora in maniera differente le problematiche affrontate e tenta di risolverle attraverso soluzioni reali e pratiche che portino ad avere un concreto sviluppo nei rapporti tra comunità locale e agricoltori.

Festival, scambi, creazione di network, consorzi, cooperative sono alcuni dei suggerimenti di cui si dovrà prendere atto dopo questa esperienza che ha trovato modo di inglobare social design e service design, arricchendosi di nuovi punti di vista.

Bruna Crapanzano

sdr