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PUSH, l’innovazione che parte dalle persone – Master Relational Design

Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Toti Di Dio, Mauro Filippi e Domenico Schillaci, fondatori di PUSH e docenti di Service Design all’interno del Master  Relational Design.

Cos’è PUSH e di cosa si occupa?
(D) Ciao! PUSH è un laboratorio di design per l’innovazione urbana con base a Palermo. Progettiamo e sviluppiamo servizi con l’obiettivo di rendere le città più sostenibili e i cittadini più felici e lo facciamo attraverso progetti di ricerca applicata, attività di partecipazione o iniziative di innovazione sociale.
Allo stesso tempo ideiamo programmi di formazione incentrati su questi temi e ogni tanto organizziamo anche qualche evento a Palermo per parlare di cose che ci interessano.
Se resta tempo ci trovate al Monkey Bar in piazza Sant’Anna (sotto il nostro ufficio) a bere un caffè o una birra a seconda dell’ora.

Cosa vuol dire per voi Service Design?
(D) Lo consideriamo un approccio estremamente utile per affrontare criticità e risolvere problemi, che si tratti di migliorare l’esperienza dei cittadini o di facilitare l’interazione tra diversi attori in un determinato contesto.

Avete deciso di intraprendere questa avventura in Sicilia, perché?
(T) PUSH nasce a Palermo nel 2013 con l’ambizione di essere una risposta costruttiva ed efficace alla crisi economica e culturale che si soffre ormai da anni in Italia e soprattutto al Sud. Nasce da siciliani che, dopo aver studiato e lavorato come progettisti in giro per il mondo, sognavano di poter vivere e costruire valore a casa loro.
PUSH è la scommessa di un gruppo di amici si sono ostinati a credere che si possa parlare di “innovazione” e “tecnologia” anche in Sicilia, e che sono anche convinti che su questi due concetti si possa basare una strategia vincente per il rilancio dell’intero territorio. Non bisogna essere Google o IBM per spingere all’innovazione un territorio, anzi. Serve solo un po’ di coraggio, metodo e tanta determinazione per farsi artefici di importanti trasformazioni.

Lavorare a Palermo pensiate abbia reso il vostro lavoro più difficile o più stimolante? (T) La scelta di Palermo non è stata casuale: per alcuni di noi è la città natale (per gli altri, trapanesi e alcamesi, ormai una seconda casa), quella in cui desideriamo lavorare, ma soprattutto è uno di quei luoghi “a margine” in cui poter testare soluzioni e progetti. Palermo è un luogo ricchissimo, ha una storia sconfinata e talenti eccezionali, ma ha anche troppe criticità che vogliamo risolvere e affrontare, poco a poco. Ci ripetiamo sempre che se un progetto funziona a Palermo può funzionare dappertutto. Le difficoltà in questi anni non sono di certo mancate e spesso non abbiamo trovato il supporto necessario o abbiamo dovuto penare per ottenerlo, ma è stato sempre stimolante e nonostante tutto siamo riusciti a tirare fuori e testare a Palermo progetti che ci hanno consentito sì di restare legati al territorio, ma anche di avvicinarci tanto all’Europa e al resto del pianeta. Questo è un modo per ridare a Palermo qualcosa e che ci fa sentire meno soli.

Al centro di molti dei vostri progetti mettete le persone e le comunità di cui fanno parte. Quale di questi vi ha restituito di più a livello personale?
(M) Lavorare con le comunità di quartiere ci ha sempre regalato grandi soddisfazioni, restituendoci un bagaglio di esperienze davvero difficile da quantificare. Comunità però sono state anche in un certo senso quelle degli studenti e dei partecipanti ai nostri corsi e ai laboratori: le “intensive school” o le “service jam” che abbiamo co-progettato e realizzato in rete ad esempio sono stati dei momenti di profondo scambio e crescita professionale. Utente, cittadino o studente, il nostro principale interlocutore è sempre la persona.   

Di recente un vostro progetto, Borgo Vecchio Factory, ha ricevuto la menzione d’onore dalla giuria del Premio Compasso d’Oro ADI 2018. Diteci di più!
(M) Borgo Vecchio Factory per noi rappresenta una delle prime vere sperimentazioni progettuali su scala urbana e di quartiere: un progetto bottom-up che mette insieme tecnologia (crowdfunding), arte (street art) ed educazione (workshop). In partnership con l’associazione Per Esempio – che da anni si occupa di educazione non formale nel quartiere Borgo Vecchio di Palermo per far fronte al problema della dispersione scolastica – abbiamo ideato insieme allo street artist comasco Ema Jons un ciclo di laboratori di arte urbana con il coinvolgimento di vari artisti. La campagna di crowdfunding ha ottenuto in un mese il 170% del monte richiesto e ha permesso di sperimentare nel quartiere una pratica di coinvolgimento e animazione del che ha dato vita in poco tempo ad un vero e proprio museo a cielo aperto tra le vie. Sono stati realizzati circa 30 grandi murales, coinvolti una sessantina di bambini di varie fasce d’età, riqualificato il campetto di calcio e tenuti dei workshop di ricamo, poster art, restauro creativo, disegno e pittura.  

Come entrano in gioco le nuove tecnologie nei progetti di Service Design per le comunità?
Attraverso la tecnologia PUSH cerca di stimolare l’interazione con le comunità attraverso la tecnologia. Attraverso il progetto Sant’Anna Jamming ad esempio, dopo un workshop che ha visto coinvolti vari studenti di architettura e design per riattivare Piazza Sant’Anna all’indomani della pedonalizzazione, è stata coinvolta la cittadinanza nella votazione del progetto migliore da proporre poi all’amministrazione comunale. Con il progetto Open Tour sono stati utilizzati i dati messi a disposizione dal comune di Palermo per offrire un servizio gratuito di mappature dei punti di interesse culturale ed è stata data ai cittadini la possibilità di contribuire con segnalazioni e datathon. Il progetto ha poi avuto un seguito a Milano e presto anche a Bari. E infine il crowdfunding, che è servito a finanziare dal basso due progetti in aree marginali, come nel caso di Borgo Vecchio Factory e di Danisinni Circus (all’interno del più ampio progetto Rambla Papireto).

Nel vostro lavoro non c’è solo la progettazione: spesso siete impegnati in attività didattiche come il Master Relational Design o altri workshop in Italia e all’estero, dove in pochi giorni – o addirittura poche ore – dovete riuscire a trasmettere un metodo ai vostri studenti. Qual è il vostro approccio all’insegnamento?
(D) Semplicemente cerchiamo di trasmettere quello che impariamo ogni giorno con il nostro lavoro e la nostra attività di ricerca. Per noi è un’attività molto utile perché ci consente di sintetizzare e organizzare tutte le informazioni, i casi studio e gli strumenti che quotidianamente utilizziamo in modo coerente e allo stesso modo in un certo senso ci obbliga a restare sempre aggiornati, il che nel nostro ambito è un aspetto fondamentale.
L’attività didattica ci piace davvero tanto perché ci consente ogni volta di provare qualcosa di nuovo e non esagero quando dico che per noi è anche un modo per imparare tanto. Il nostro approccio è molto informale e incentrato sull’azione: che si tratti di costruire un prototipo, intervistare delle persone, disegnare un’interfaccia o girare un video solo realizzando qualcosa e testandola si riesce a capire se può funzionare davvero.  

A proposito del master: proprio quest’anno avete tenuto a Palermo il summer camp Design for Urban & Social Innovation, in cui molti degli studenti venivano da altre città d’Italia o addirittura da altre nazioni: parlateci di questa esperienza e di come avete affrontato questa “sfida”.
(D) Ci piaceva l’idea di utilizzare Palermo come playground per gli studenti, quindi, dopo aver passato la prima giornata a girare la città incontrando imprenditori, attivisti e artisti locali abbiamo chiesto loro di individuare uno specifico bisogno e di progettare un servizio che fosse in grado di risolverlo.  Naturalmente all’inizio c’è stato un po’ di smarrimento, del resto non è facile calarsi da subito in un contesto urbano nuovo e comprenderne dinamiche e relazioni, così come riuscire a individuare le informazioni chiave quando si è bombardati da una enorme quantità di input, ma anche questo fa parte del processo su cui vogliamo che i ragazzi si confrontino.
È stato bello vedere giovani provenienti da tante realtà diverse confrontarsi con la nostra città, cercare di capirla e sforzarsi per pensare a qualcosa che possa produrre un cambiamento positivo in così pochi giorni; è stato stancante ma alla fine eravamo tutti soddisfatti e crediamo che questa sia la cosa più importante.

Qual è la connessione fra il Service Design e il Relational Design?
(D) Qualsiasi servizio ha come obiettivo quello di offrire ai chi lo utilizza la migliore esperienza possibile; ogni esperienza a sua volta si basa su una serie di relazioni e interazioni. In quest’ottica è fondamentale essere in grado di progettare con e non solo per le persone, conoscere bene i nuovi media digitali ed essere in grado di comunicare in modo chiaro ed efficace; per questo approfondire il design delle relazioni è importante. Per il prossimo anno abbiamo in programma un nuovo modulo all’interno del Master Relational Design ma preferiamo non svelare nulla, anche perché l’effetto sorpresa è una delle cose su cui puntiamo! L’unica cosa che possiamo dire è che sarà diverso da quello dello scorso anno e come ogni volta cercheremo di proporre qualcosa di nuovo.

 

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