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Il ruolo sociale del designer nell’economia della cultura: intervista ad Anna Mignosa

In che modo può il design generare sviluppo locale e creare nuove economie attraverso l’arte, la cultura e la creatività? Quali politiche e buone prassi dovrebbero adottare le amministrazioni cittadine o i governi nazionali per favorire tali processi? A queste domande risponde Anna Mignosa, docente del modulo Design per le Industrie Culturali e Creative.

La tua ricerca si concentra sull’economia della cultura: di cosa si tratta e come ti sei avvicinata a questi temi?
Cultura ed economia sono stati considerati a lungo come una “strana coppia”, dove l’economia veniva vista come una minaccia per la cultura. In realtà l’economia può offrire un approccio utile a sostenere il settore culturale utile per sostenerlo. L’economia della cultura, in particolare, potrebbe aiutare a risolvere alcuni dei problemi del settore garantendone la sopravvivenza e lo sviluppo.
Quello che è considerato il primo testo di economia della cultura, Performing arts: the economic dilemma di W.J. Baumol e W.G. Bowen, fornisce la giustificazione teorica per il supporto pubblico alla cultura. La disciplina si è sviluppata sia nell’approccio usato che per quanto riguarda i temi e i settori analizzati: performing arts, patrimonio culturale, mercato dell’arte, industrie culturali e creative, internet, digitalizzazione, comparsa di nuovi intermediari, ruolo del copyright, riduzione del finanziamento pubblico per la cultura, ri-organizzazione delle politiche culturali, nuovi modelli di business, turismo culturale, rapporto fra patrimonio culturale, creatività e sviluppo, città creative, moda, economia dell’artigianato, nuovi modelli di governance della cultura… Questa evoluzione dell’economia della cultura dimostra la sua capacità di seguire da vicino i cambiamenti della società e il tentativo di fornirne una lettura che possa migliorare “lo stato dell’arte”.

L’ingresso del campus della Erasmus University, Rotterdam

Mi sono avvicinata a questa disciplina grazie a un incontro col prof. Alan Peacock, a cui è seguita la collaborazione a una ricerca sulla gestione del patrimonio culturale siciliano che mi ha poi portata a fare un dottorato in Economia della Cultura a Rotterdam, con una tesi sulla gestione del patrimonio in Sicilia e Scozia. Da qui la mia attenzione si è concentrata sull’economia del patrimonio culturale ponendo particolare attenzione alle politiche culturali. Adesso divido la mia attività di insegnamento e di ricerca fra l’Italia e l’Olanda, occupandomi principalmente di turismo culturale, del rapporto fra patrimonio culturale, creatività e sviluppo, dell’economia dell’artigianato e di nuovi modelli di governance della cultura.

Qual è il rapporto tra innovazione sociale, economia della cultura e design?
C’è una crescente attenzione sul ruolo sociale del design e sugli effetti che questo può avere per l’innovazione sociale. Si tratta di un fenomeno che ha coinvolto soprattutto gli addetti ai lavori: designer, architetti, urban planner, social innovator. L’economia della cultura può fornire gli strumenti per un’analisi critica del rapporto esistente fra innovazione sociale e design, e quindi identificare best practice che potrebbero essere incluse nelle politiche di sviluppo di città, regioni, nazioni.

Anna Mignosa durante il workshop dell’edizione 2019.

Ti dividi tra l’Italia e l’Olanda: quali sono le sostanziali differenze nell’applicazione dell’economia della cultura nei due paesi?
Qualche anno fa una mia studentessa fece una tesi che cercava di verificare se e quanto l’economia della cultura trovasse applicazione nella pratica. Il risultato delle sue ricerche era alquanto scoraggiante perché sembrava rilevare una scarsa applicazione della disciplina nella gestione della cultura a livello internazionale. Comunque, in generale, in Olanda c’è una maggiore attenzione ai temi economici nella gestione della cultura. L’idea di accountability – ossia la responsabilità nei confronti di una gestione efficace delle risorse pubbliche destinate alla cultura – è sicuramente più sviluppata di quanto non accada in Italia, dove purtroppo l’approccio economico è ancora guardato con sospetto, nonostante la diffusa consapevolezza dell’importanza del nostro patrimonio culturale. Prevale ancora l’idea che l’economia sia una minaccia per la cultura e non uno strumento per supportarla e migliorarne lo stato. Anche il dibattito sulle industrie culturali e creative resta nel nostro paese indietro rispetto a quanto sta accadendo nella maggior parte degli altri paesi –europei e non.

Design per le Industrie Culturali e Creative è il corso che terrai a Rotterdam a gennaio 2020 per il Master Relational Design. Puoi darci qualche anticipazione?
Vorrei mostrare agli studenti che esistono una miriade di opportunità di valorizzazione della cultura, in senso molto ampio ma con una forte attenzione alla sua relazione con la comunità locale e con i temi che oggi sono sempre più alla ribalta in linea con gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU. La cultura è – o può diventare – uno strumento fondamentale di crescita sociale ed economica: bisogna essere creativi abbastanza per identificare i modelli, gli strumenti e le politiche che possono rendere questo possibile trasformando idee in pratiche di sviluppo sociale, culturale ed economico.

Il corso Design per le Industrie Culturali e Creative si terrà a gennaio 2020, con un workshop a Rotterdam da giovedì 9 a sabato 11.
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Info e iscrizioni:
info@relationaldesign.it

 

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Allargare i propri orizzonti e uscire dalla comfort zone grazie al Programma Erasmus+: intervista ad Alice Biagi

«Dopo la laurea in Architettura all’Università di Trieste, mi sono ritrovata a non saper bene da che parte andare, cosa fare e da dove cominciare. Ho lavorato per un periodo in uno studio di architettura che ho scoperto starmi un po’ strettoHo sempre trovato affascinante osservare come le persone interagiscono, come si intrecciano, come si legano; e per quanto siano temi che interessano la sfera “architettura”, spesso non vengono presi in considerazione da chi lavora in questo settore. Per questo ho cominciato a guardarmi attorno e cercare un’altra strada, provando a crearne una mia. Sono una persona metodica e razionale, ma con una vena creativa che ogni tanto ha il sopravvento, e la voglia continua di scoprire cose nuove.»

Come ti sei avvicinata al master e perché hai deciso di intraprendere questo percorso?
Sorrido sempre quando mi fanno questa domanda, perché in realtà è successo totalmente per caso, mentre cercavo su internet cosa fare della mia vita. Avevo scelto delle parole chiave per individuare dei possibili percorsi di studio (glocal, comunicazione, comunità…) e uno dei primi risultati è stato proprio il Master Relational Design. L’ho interpretato come un segno e nel giro di qualche giorno mi sono iscritta. Mi stimolava molto l’idea di un percorso itinerante: diverse città, diversi docenti e diversi argomenti. Credo che sviluppare conoscenze in vari settori oggi sia di fondamentale importanza perché permette di approcciarsi ad altri professionisti (e non) con maggiore consapevolezza, avendo una visuale e un campo d’azione più ampi.

Grazie al programma Erasmus+ hai avuto la possibilità di svolgere all’estero il tirocinio del master. Cosa ha significato per te questa esperienza?
Tanto. Sicuramente.
Avevo già vissuto un’esperienza Erasmus, a Valencia durante la triennale, ma questa volta è stato totalmente diverso, innanzitutto perché è stata un’esperienza lavorativa… e poi perché (forse) sono più matura rispetto a quattro anni fa.
Il traineeship in Slovenia ha significato molto per vari motivi. A livello personale sentivo il bisogno di mettermi alla prova, nel dover parlare un’altra lingua e nel dovermi confrontare con persone nuove e una realtà diversa da quella a cui ero abituata, nonostante fossi comunque vicino a casa. A livello lavorativo è stato molto costruttivo: da PiNA, l’organizzazione non governativa che mi ha ospitata, spesso non sembra esserci una scala gerarchica, quindi fin da subito mi sono stati affidati responsabilità e progetti (per quanto piccoli) da seguire quasi in toto. Questo mi ha aiutata a spingermi oltre ai miei limiti… proprio quello che cercavo. In più ho conosciuto persone fantastiche che mi hanno fatta crescere, dei mentors che non si sono limitati ad essere delle figure “burocratiche” come da contratto, ma hanno realmente voluto regalarmi del tempo e condividere con me le loro esperienze, dandomi delle preziose lezioni di vita che nel tempo ho fatto mie.


Uno dei progetti a cui ho collaborato è Narišimo Obalo – Drawing the Coast, un intervento di cittadinanza attiva e di gestione partecipativa del territorio. Abbiamo iniziato all’alba stendendo lungo il percorso 2 km di carta bianca e abbiamo finito alle 9 di sera raccogliendo 750 mt di disegni realizzati da bambini e persone di ogni età. L’evento ha permesso, attraverso la scrittura e il disegno, di progettare il futuro della strada costiera cha va da Capodistria a Isola.

Consiglieresti l’Erasmus+ Traineeship ai futuri studenti?
Assolutamente sì, indipendentemente dall’indole o dal carattere credo sia un’esperienza fondamentale per allargare i propri orizzonti, riuscire a vedere le cose da diversi punti di vista e costruirsi un bagaglio di competenze ad ampio spettro. Un’esperienza Erasmus insegna ad adattarsi alle diverse situazioni, ad essere resilienti in questo mondo incasinato, soggetto a cambiamenti repentini in cui a volte possiamo sentirci persi. Quindi sì, lo consiglio, anche perché non capita tutti i giorni di poter andare all’estero ricevendo una borsa di studio, una sorta di  piccolo “aiuto da casa”.

PiNA, Koper. Foto: Ales Rosa

Ora che sei quasi al termine del percorso, cosa ti ha lasciato il master? E come ti ha ispirata per i tuo progetti?
Ha aumentato in me la voglia di scoprire cose nuove, sempre e comunque, di non fermarmi nella zona di comfort in cui si sta comodi ma si è statici, di provare sempre a vedere cosa c’è oltre. Un po’ come quando durante il corso di Design Narrativo abbiamo oltrepassato la recinzione attorno a Isola Bella scoprendo che sapeva essere davvero ‘bella’!
Quest’anno è stato una continua scoperta, il modo di porsi dei docenti e i temi su cui abbiamo lavorato personalmente mi hanno dato molto. A prescindere dal non indifferente network che ti puoi creare, ho avuto la possibilità di vedere dall’interno il funzionamento di realtà molto conosciute come Internazionale, ma anche come sono nate, i valori e la forza rivitalizzante di altre più piccole, come Suq. magazine.

Che progetti hai per il futuro?
Attualmente sto continuando a lavorare da PiNA, principalmente come graphic designer. Quando lo scorso gennaio mi è stato chiesto se volessi rimanere quasi non ci credevo!
In più sto sviluppando un progetto assieme ad altri ragazzi per creare una Civic Factory a Trieste, uno spazio in cui generare cultura, un luogo di aggregazione aperto a tutti per creare, sperimentare ed essere attivi! E siccome sono argomenti pertinenti al master, ho deciso di sviluppare parte di questo progetto come tesi, sotto la supervisione di Andrea Paoletti, andando a ricercare delle possibili strategie per attivare uno spazio del genere in una città come Trieste.

Il Degree Show del Master Relational Design si terrà venerdì 11 ottobre 2019 ad ABADIR – Accademia di Design e Arti Visive. Vieni a scoprire il progetto di Alice!

La nuova edizione del master inizia il 1° ottobre:
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Alice durate il workshop di Editoria Creativa del Master Relational Design

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Kilowatt: progettare modelli di sviluppo sostenibile

Innovazione sociale, rigenerazione urbana, sostenibilità: il design contemporaneo non può non tenere conto del proprio impatto sul futuro. Ne abbiamo discusso con Gaspare Caliri, co-founder di Kilowatt e docente del corso Design-as-a-Bricolage for Social Impact and Sustainability, in programma ad aprile 2020 all’interno della nuova edizione del Master Relational Design.


Semiologia, co-design e community organizing: dicci di più sul tuo background poliedrico.
La mia prima passione è stata la semiotica – l’etnosemiotica in particolare – e la lettura di lettristi e situazionisti. Poi i processi creativi collettivi. Poi i modelli organizzativi. Ho capito alcune cose, credo abbastanza bene, grazie a queste passioni e grazie all’arte relazionale, al design dei servizi e soprattutto alle teorie della complessità: non esiste causa-effetto ma azione e retroazione; il nostro punto di vista incide sul sistema, lo modifica. 


Sei co-fondatore di Kilowatt. Di che si tratta?
Kilowatt è un’organizzazione complessa, tecnicamente un ibrido organizzativo, ma anche un incubatore di progetti nostri e di altri. Ci occupiamo di tante cose diverse: ad esempio abbiamo rigenerato a nostre spese le vecchie serre abbandonate del comune di Bologna, dove abbiamo un ristorante e una programmazione culturale, un orto condiviso, un coworking e una scuola dell’infanzia; siamo stati una startup innovativa cooperativa e ora non lo siamo più perché siamo diventati adulti; abbiamo un’agenzia di comunicazione e una di consulenza – tutte cose che potete vedere sul nostro sito – e tutte concorrono a un obiettivo di cambiamento di lungo periodo: dare al lavoro la qualità del tempo libero. Trovate un po’ di cose nel nostro bilancio d’impatto e in questo articolo.


Di quali altri progetti ti occupi?
Sono stato tra i fondatori del Centro Bolognese di Etnosemiotica (CUBE) e ho condotto per molti anni Snark, un’associazione che si occupava di progetti di sensibilizzazione ai temi legati allo spazio pubblico (ora non c’è più, abbiamo fatto una festa funebre a inizio anno); ho anche fatto il critico musicale, per dodici anni più o meno. Ora (da cinque anni e passa, per la verità) c’è Kilowatt, che è il mondo che ci costruiamo ogni giorno cercando di valorizzare le nostre passioni, ricavandoci gli spazi di libertà di espressione di cui abbiamo bisogno. E uno di questi è proprio la dimensione della formazione, dell’educazione; un altro è la programmazione di concerti e laboratori sulle musiche non convenzionali, che curo alle Serre.

Le Serre dei Giardini Margherita, Bologna_

Dicci di più sulle Serre dei Giardini Margherita che hai citato prima: parlaci dello spazio e delle attività che si svolgono al suo interno.
È un luogo dove i pubblici si mescolano, è al contempo un bar e ristorante (d’estate proiettato fortemente verso l’esterno), una grande aula studio coworking informale all’aperto (ovunque ci sono WiFi e prese elettriche), uno spazio per eventi (non solo nostri), un luogo di condivisione, cultura, formazione, oltre che il nostro spazio di lavoro. Ognuno ha un’occasione o un’opportunità per appropriarsene.


Così come il master si fonda principalmente sulle relazioni anche,  il tuo corso vuole creare connessioni tra gli strumenti provenienti da diverse discipline. Puoi darci qualche anticipazione?
Lavoriamo molto sul tema dell’impatto, ossia del cambiamento a lungo periodo legato principalmente ai diciassette obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Aiutiamo le aziende o altre organizzazioni a orientare la propria innovazione grazie a questa prospettiva. Allo stesso tempo, facciamo progetti sperimentali in prima persona. Uno di questi è GREAT, un progetto europeo finanziato dal fondo Life, che ha l’obiettivo di aumentare la consapevolezza di tutta la filiera, dal coltivatore al trasformatore, alla GDO al consumatore finale, dell’importanza di coltivare e consumare cibi cosiddetti “resilienti” (che contribuiscono a calmierare il riscaldamento globale e si adattano meglio al cambiamento che è già in atto).
Design-as-a-bricolage vuol dire dotarsi degli strumenti più adeguati (sia che vengano dalle scienze sociali, sia dalla comunicazione, dal community organizing o dal design dei servizi) per gestire il corretto confezionamento di una domanda di progettazione, che è sempre anche domanda di immaginario per una comunità di riferimento. Lavoreremo proprio sulla dimensione del coinvolgimento e sul problem framing con i destinatari del progetto.

Il modulo “Design-as-a-Bricolage for Social Impact and Sustainability” si terrà ad aprile 2020 in collaborazione con Kilowatt e con Alce Nero: 
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Gaspare Caliri

 

 

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Plebiscito o Pebliscito, un museo diffuso contro i pregiudizi e le disuguaglianze sociali. Intervista a Giovanna Vinciguerra

Può un quartiere popolare diventare il polo artistico e culturale della città? Ci ha provato Giovanna Vinciguerra – studentessa della sesta edizione del Master Relational Design – col progetto di tesi “Plebiscito o Pebliscito?“, che ha trasformato per un giorno le botteghe di San Cristoforo, a Catania, in piccole gallerie d’arte.

Com’è nata l’idea di un museo diffuso a San Cristoforo?
Il progetto nasce da un’esigenza personale. Sono nata e cresciuta a San Cristoforo e spesso, nonostante i miei studi, mi sono sentita giudicata a causa della mia provenienza. Di questo quartiere, conosciuto più per essere una zona di “malaffare”, volevo restituire un’immagine diversa, lontana dagli stereotipi. Ai pregiudizi volevo contrapporre i valori di una comunità ancora oggi legata agli antichi mestieri che vengono portati avanti nelle piccole botteghe che costellano San Cristoforo. Volevo far conoscere il mio quartiere per come l’ho vissuto e per farlo mi sono servita dell’arte: 70 opere sparse nei piccoli esercizi commerciali e la possibilità di fruirle per chiunque volesse. Il corso “Pratiche Relazionali nell’Arte” tenuto da Gianni Romano – che è stato anche il relatore della mia tesi –è stato certamente un ottimo punto di partenza.

L’allestimento

Arte in bottega: il quartiere come vetrina per le opere o il contrario?
Il limite tra contenuto e contenitore era labile: non più l’opera al centro della mostra, ma gli odori, i colori e le atmosfere stesse di San Cristoforo. L’arte è divenuta il mezzo attraverso cui far conoscere l’anima del quartiere, abbattere i pregiudizi e avvicinare la gente di strada alla cultura e, dall’altra parte, la gente di cultura alla strada.

Cosa intendi quando parli di arte come interstizio sociale?
In questo caso l’atto artistico non è racchiuso nel gesto creativo dell’artista, bensì nelle reazioni che ha provocato. L’opera non è più un un oggetto ma si identifica in una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio in cui sono le relazioni a rappresentarla.

I commercianti del quartiere e le opere

Quali sono stati gli effetti dell’arte relazionale sulla comunità?
In un primo momento i commercianti si sono mostrati restii a ospitare dentro i loro negozi delle opere – forse perché non volevano assumersi così tante responsabilità oppure perché volevano evitare l’impiccio di dover accogliere per l’intera giornata un pubblico diverso dai soliti acquirenti. Eppure al momento del disallestimento erano dispiaciuti e avrebbero voluto tenerle ancora un po’. Nonostante si trattasse di pezzi di arte contemporanea, la comunità ha dato prova di apertura e ricettività nei confronti di istanze lontane dalla consuetudine o, più semplicemente, dalla vita del quartiere.

Quanto è stato importante tessere relazioni per portare a compimento il tuo progetto?
La prima parola su cui si è basato il progetto è stata “fiducia”. Le relazioni hanno avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione di “Plebiscito  o Pebliscito” e non si sono sviluppate su un unico piano, ma su tre livelli: con la comunità, gli artisti e il pubblico. All’inizio non è stato facile: come ho già detto, per prima cosa ho dovuto convincere i commercianti; poi gli artisti, che si sono mostrati impauriti dal contesto in cui sarebbero state esposte le opere e restii a prestarle senza nessun tipo di assicurazione. Per ultimo il pubblico, che in alcuni casi ha storto il naso quando ha saputo che la mostra itinerante si sarebbe svolta nel quartiere di San Cristoforo, come a evidenziare che neanche l’arte può sconfiggere il pregiudizio. Eppure, nonostante tutto, a giochi fatti le reazioni su tutti i fronti si sono svelate molto diverse. I commercianti erano entusiasti e dispiaciuti di dover salutare così presto le opere, che per un giorno avevano abitato le loro botteghe; gli artisti e il pubblico incuriositi e soddisfatti di aver preso parte a un evento che si era mostrato come uno squarcio di consapevolezza tra la bellezza e il degrado di ciò che non avevano mai visto o voluto vedere.

Questo progetto è stato per me motivo di grandi soddisfazioni, è stato il culmine di un percorso complesso e allo stesso tempo gratificante. Relational Design mi ha messo a dura prova ma era quello che cercavo da tempo:  è stato capace di farmi conoscere realtà, linguaggi e prospettive del tutto nuove e inaspettate.

Giovanna Vinciguerra guida i visitatori il giorno dell’inaugurazione
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Giulia Micozzi, da Monza a Palermo per tessere relazioni multiculturali

Dall’Internet of Things all’innovazione sociale; da nord a sud per una nuova esperienza formativa multiculturale: vi raccontiamo la storia di Giulia Micozzi, studentessa del Master Relational Design.

Parlaci di te: da dove vieni? E cosa ti ha spinta a frequentare il Master Relational Design?
Vengo da Monza e ho studiato Design del Prodotto Industriale al Politecnico di Milano laureandomi nel 2017. Dopo la laurea sapevo di voler continuare gli studi ma volevo fare una scelta ponderata dell’indirizzo da prendere, motivo per cui ho iniziato a lavorare a Milano, prima seguendo i progetti di un professore del Politecnico, poi da THINGS.is, un’agenzia di design specializzata in IoT. In questa fase ho scoperto grazie ai social il master, che mi ha subito interessato perché data la varietà di argomenti trattati poteva aiutarmi nella ricerca della mia strada.

Adesso che sei quasi alla fine del percorso puoi dirci cos’è per te Relational Design?
Il nome del master è autoesplicativo: relational, relazioni, inteso come creazione di network, e design, il progetto. Questo master ti fa capire l’importanza delle relazioni per la realizzazione di un progetto completo e ben fatto, soprattutto negli ambiti che vengono trattati, come l’innovazione sociale. Non possiamo fare tutto da soli, ognuno ha le sue competenze, durante questi mesi abbiamo scoperto come mischiarle e sfruttarle a vicenda. Questo sia grazie al fatto che ogni modulo insegna le basi di una disciplina diversa, sia perché gli studenti vengono da background diversi.

Da Monza ti sei trasferita a Palermo per lo stage, una scelta in controtendenza rispetto ai tuoi coetanei. Cosa ti ha spinto a farla?
Ho frequentato a Palermo il summer camp del master, Design for Urban and Social Innovation e questa città ha avuto su di me un “effetto calamita”: c’è fermento e voglia di fare, i campi d’azione possibili per progetti interessanti e socialmente utili sono moltissimi. Mi sono così guardata intorno e ho individuato una realtà in cui svolgere uno stage che mi insegnasse come muovermi nell’ambito dell’innovazione sociale: MoltiVolti, che ho conosciuto grazie ai ragazzi di PUSH. Parallelamente sto portando avanti il mio progetto di tesi, sviluppato proprio con PUSH. qui a Palermo.

Cos’è MoltiVolti e di cosa ti occupi al suo interno?

MoltiVolti è un caso-studio perfetto di progetto di innovazione sociale focalizzato sull’inclusione e l’accoglienza. Ai più è conosciuto solo come un ristorante che offre piatti che mescolano culture straniere e cucina siciliana, preparati da ragazzi e ragazze di dieci nazionalità diverse. Il ristorante serve però a mantenere tutta la parte no-profit del coworking di MoltiVolti, che offre il proprio spazio gratuitamente a realtà che trattano gli stessi temi di accoglienza e diritti umani.
Al momento mi sto occupando di comunicazione, un ambito estremamente importante per promuovere le iniziative che MoltiVolti offre alla comunità: i progetti sono vari e di vario genere – dai concerti all’organizzazione di viaggi di turismo sostenibile – e sono quasi sempre svolti insieme a altre associazioni o imprese. L’impatto che ha sulla città di Palermo è quello di trasmettere il valore dell’accoglienza e di far sì che la città diventi un luogo in cui le diversità sono percepite non come una debolezza o una paura ma come un’opportunità. Questo porta a un’integrazione delle comunità straniere facilmente percepibile stando a Palermo.

In che modo il master ti ha aiutata ad affrontare questa nuova avventura e in cosa ti ha cambiata?
Il master, in più di un modulo, mi ha dato la possibilità di conoscere diverse realtà, di capire che la creazione di coworking, reti collaborative e associazioni per il sociale è qualcosa di fattibile e più diffuso di quanto si pensi, su cui ci si sta sensibilizzando e investendo, cercando i mezzi per mantenere in vita queste imprese. Il master mi ha fatto capire che direzione dare al mio futuro, che strada prendere.

Il ristorante di MoltiVolti
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City-Rural Connections – Creare relazioni, non transazioni, tra individui

Abbiamo il piacere di introdurre una novità per il blog di Relational Design, il racconto dei workshop da chi li vive in prima persona: Bruna Crapanzano, studentessa dell’edizione 2016-17, sarà il nostro reporter ufficiale sul campo. Questo il suo racconto dell’esperienza appena conclusa con John Thackara ad Abadir.

La prima cosa che noti arrivando a Catania in una giornata di sole siciliano è il profilo dell’Etna. Impassibile osservatore della città, non puoi fare altro se non continuare a ricercarlo con lo sguardo mentre cammini per le strade.

L’imprinting è immediato, la connessione tra la città e il vulcano imprescindibile.

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Connettere, è proprio questo verbo che diventa il tema centrale che il workshop vuole affrontare.
Parliamo di rapporto tra città e campagna, parliamo di urbano e agricolo, parliamo di presente e futuro che convivono, parliamo di City-Rural Connections.

 

Partendo da questi presupposti, si entra sin da subito nel vivo del progetto con una discussione che coinvolge attivamente gli studenti e John Thackara, autore di numerosi testi sull’argomento e docente del modulo. Si analizzano esempi e si valutano punti di forza o debolezza di progetti sparsi per l’Italia e per il mondo.

Ma per ribadire il rapporto non astratto con queste tematiche è importante conoscere dal vivo chi li mette in pratica ogni giorno, per cui si parte alla volta della Piana di Catania per vedere da vicino alcune di queste realtà.

 

Casa delle acque è la nostra prima tappa, ci accolgono Nirav e le persone che con lui gestiscono la masseria. Dopo averci fatto accomodare ci raccontano la loro storia: il piacere di vivere nella Valle del Simeto, la loro filosofia di vita incentrata su accoglienza e partecipazione, l’autoproduzione di frutta e verdure ma anche incontri, seminari, lavoro con scuole e condivisione.

 

Tra gli orti di Saja Project arriviamo dopo una camminata pomeridiana. Parliamo prima con Roberto e poi con Salvo. Roberto ci spiega i loro metodi di coltura e l’importanza della biodiversità. Salvo ci racconta il percorso che lo ha portato ad avviare Saja e i valori che regolano il progetto basato sul restituire all’uomo l’autonomia nel sostentamento senza per questo motivo doversi isolare dalla società.

 

Il terzo ospite che incontriamo è Turi (Salvatore), subito pronto a narrarci il progetto Sicilia Integra nato insieme a Gaia Education e all’Università di Catania, che punta a creare un connubio tra sostenibilità e integrazione. Mettendo a disposizione di volontari e rifugiati attività di formazione sull’agricoltura sostenibile da attuare in Sicilia e esportare poi nei rispettivi Paesi di provenienza.

workshop

Nei giorni successivi è tutto in evoluzione, tra dialoghi accesi e progetti da costruire in tre giorni. Il mantra di John è chiaro è necessario creare relazioni e non transazioni tra individui”.

 

A metà del quarto giorno è il momento di presentare ciò che si è prodotto.

Quattro progetti, ognuno dei quali esplora in maniera differente le problematiche affrontate e tenta di risolverle attraverso soluzioni reali e pratiche che portino ad avere un concreto sviluppo nei rapporti tra comunità locale e agricoltori.

Festival, scambi, creazione di network, consorzi, cooperative sono alcuni dei suggerimenti di cui si dovrà prendere atto dopo questa esperienza che ha trovato modo di inglobare social design e service design, arricchendosi di nuovi punti di vista.

Bruna Crapanzano

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