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Pratiche Relazionali nell’Arte – Un pomeriggio all’atelier Mendini

di Salvino Daniele Cardinale

Alessandro Mendini: rinnovatore del design italiano, intellettuale, autore di scritti. Ha lavorato per aziende del calibro di Alessi, Cartier, Swatch, Swarovski. Al suo nome è subito accostato quello della poltrona Proust (esposta in diverse collezioni permanenti). Per la sua attività di designer ha ricevuto numerosi premi, tra i quali – per due volte – l’importante compasso d’oro. Se si deve descrivere lo sviluppo del design italiano del ‘900 non si può non citarlo. Punti forza della persona (e dell’architetto) sono la disponibilità a mettersi in gioco, una personalità giocosa e un impegno organizzativo e divulgativo. Il mondo di Mendini è pieno di colori, di schizzi, di scritti, di personaggi.

Schizzo della poltrona Proust.
Schizzo della poltrona Proust

Nel parlare di icone del design contemporaneo, dinanzi a Mendini e ai suoi progetti ci si confronta con un mondo pieno di sorprese e giochi. L’opera di Mendini si misura con la totalità del processo creativo: dal particolare al generale, dall’oggetto di design al grande edificio, dal cucchiaio alla città; questi sono i suoi confini. Nel 2000 ha fondato insieme al fratello Francesco l’Atelier Mendini: è qui che ci ha accolti  scorso 16 febbraio, in occasione del workshop milanese di Pratiche Relazioni nell’Arte, uno dei moduli del Master Relational Design. Dopo l’accoglienza di rito, Mendini ci porta in giro per l’atelier e, ogni qualvolta il suo sguardo incontra un’opera, un oggetto, uno schizzo, egli si sofferma a spiegarci di cosa si tratti, com’è stato pensato e se è esposto da qualche parte. Oltre a far da cicerone all’interno del suo atelier-museo, il designer ci regala anche pillole di saggezza concernenti il suo lavoro e ci spiega l’importanza di avere persone provenienti da varie parti del mondo all’interno di uno studio: «…E, se il committente non sa parlare inglese, vai a spiegargli in coreano quello che voglio fare». Dopo di ciò passiamo a un altro argomento importante: il suo libro Scritti di domenica, fresco di pubblicazione per Postmediabooks. Lo presenta subito come un libro nato dal suo bisogno di trasmettere delle sensazioni, tramite una serie di scritti.

D: Perché il libro si intitola “Scritti di domenica”? R: Perché devo scrivere quando sono da solo, non sono capace di mettermi lì seduto in atelier e scrivere mentre si sta lavorando anche ad altro,  devo scrivere in una situazione decentrata, per esempio dopo lo yoga. Devo passare a una dimensione più rallentata del cervello. Quindi scrivo di domenica, disegno anche di domenica (disegni che sono separati dagli scritti, alcuni dei quali sono presenti nel libro, N.d.A.). Alcuni dei disegni a cui sto lavorando in questo periodo (che lui chiama “mostre”, N.d.A.) sono disegni da tre ore.

La copertina del libro
La copertina del libro

D: Questi disegni c’entrano con quello che sta facendo per ora? R: No. Io faccio schizzi e da quelli, trasformandoli in cose, poi si arriva ad alcuni lavori. Però sì, tutti i miei lavori partono dagli schizzi e dagli scritti.

D: Lei si occupa anche di altri autori, li descrive, e descrivendoli fa sempre emergere un valore. Qual è il suo rapporto con la nuova generazione di designer e architetti? R: Vengono spesso a trovarmi vari personaggi della scena contemporanea e io prendo questa cosa molto seriamente. Se uno viene da me non è che gli dico buongiorno e basta. Allora si stabiliscono dei contatti – che sono utilissimi, tra l’altro. Queste persone sono di tutti i tipi: dai megalomani, come Karim Rashid, a persone molto introverse, con le quali la conversazione si trasforma in una specie di psicoanalisi. Spesso mi viene richiesto un parere scritto, per una mostra o una rivista. Quando scrivi per una persona, automaticamente stabilisci un feeling, una specie d’innamoramento che ti porta a pensare in quel momento che quello che stai facendo è importantissimo. Scrivere diventa allora una forma di dedizione.

D: Secondo lei a cosa serve l’arte? R: L’arte sul piano pratico non serve a niente e al contempo, secondo me, è una delle cose più importanti, perché il fatto di creare espressione senza nessun collegamento all’utilità le dà una chance di prospettive antropologiche, spirituali, legate al futuro, che nessun’altra attività – anche para-artistica, come l’architettura o il design – riesce ad avere. L’arte è il punto più avanzato del pensiero, cosi come la filosofia.

D: Quindi questo libro di cosa tratta? R: Io ho fatto due libri di scritti, questo qui, raccoglie gli ultimi dieci anni di scritti e li raccoglie in fila, in ordine cronologico, però organizzati anche un po’ per settori: c’è il lavoro fatto per le riviste, il lavoro fatto per le persone, poi il lavoro fatto a commento di progetti di architettura, di design; poi ancora altri scritti teorici, sull’architettura, sull’arte, sul design e anche dei pensieri più generali.

D: Il suo libro quindi ha anche un carattere di manifesto? R: No, c’è qualche piccolo scritto che ha la formula del manifesto, ma il libro non ha la struttura del manifesto, il libro è un “patchwork”. Finite le domande, sul libro e su altri argomenti, ci accompagna verso l’uscita. Lungo il percorso,  passando accanto ad una poltrona Proust modello Magis, interamente in plastica (“la versione da giardino”, come l’ha definita lui), ci concede una foto: questa volta non è lui a sedere sull’iconica Proust ma noi, mentre lui ci sta accanto.

Io e Alessandro Mendini
Io insieme ad Alessandro Mendini