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Plebiscito o Pebliscito, un museo diffuso contro i pregiudizi e le disuguaglianze sociali. Intervista a Giovanna Vinciguerra

Può un quartiere popolare diventare il polo artistico e culturale della città? Ci ha provato Giovanna Vinciguerra – studentessa della sesta edizione del Master Relational Design – col progetto di tesi “Plebiscito o Pebliscito?“, che ha trasformato per un giorno le botteghe di San Cristoforo, a Catania, in piccole gallerie d’arte.

Com’è nata l’idea di un museo diffuso a San Cristoforo?
Il progetto nasce da un’esigenza personale. Sono nata e cresciuta a San Cristoforo e spesso, nonostante i miei studi, mi sono sentita giudicata a causa della mia provenienza. Di questo quartiere, conosciuto più per essere una zona di “malaffare”, volevo restituire un’immagine diversa, lontana dagli stereotipi. Ai pregiudizi volevo contrapporre i valori di una comunità ancora oggi legata agli antichi mestieri che vengono portati avanti nelle piccole botteghe che costellano San Cristoforo. Volevo far conoscere il mio quartiere per come l’ho vissuto e per farlo mi sono servita dell’arte: 70 opere sparse nei piccoli esercizi commerciali e la possibilità di fruirle per chiunque volesse. Il corso “Pratiche Relazionali nell’Arte” tenuto da Gianni Romano – che è stato anche il relatore della mia tesi –è stato certamente un ottimo punto di partenza.

L’allestimento

Arte in bottega: il quartiere come vetrina per le opere o il contrario?
Il limite tra contenuto e contenitore era labile: non più l’opera al centro della mostra, ma gli odori, i colori e le atmosfere stesse di San Cristoforo. L’arte è divenuta il mezzo attraverso cui far conoscere l’anima del quartiere, abbattere i pregiudizi e avvicinare la gente di strada alla cultura e, dall’altra parte, la gente di cultura alla strada.

Cosa intendi quando parli di arte come interstizio sociale?
In questo caso l’atto artistico non è racchiuso nel gesto creativo dell’artista, bensì nelle reazioni che ha provocato. L’opera non è più un un oggetto ma si identifica in una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio in cui sono le relazioni a rappresentarla.

I commercianti del quartiere e le opere

Quali sono stati gli effetti dell’arte relazionale sulla comunità?
In un primo momento i commercianti si sono mostrati restii a ospitare dentro i loro negozi delle opere – forse perché non volevano assumersi così tante responsabilità oppure perché volevano evitare l’impiccio di dover accogliere per l’intera giornata un pubblico diverso dai soliti acquirenti. Eppure al momento del disallestimento erano dispiaciuti e avrebbero voluto tenerle ancora un po’. Nonostante si trattasse di pezzi di arte contemporanea, la comunità ha dato prova di apertura e ricettività nei confronti di istanze lontane dalla consuetudine o, più semplicemente, dalla vita del quartiere.

Quanto è stato importante tessere relazioni per portare a compimento il tuo progetto?
La prima parola su cui si è basato il progetto è stata “fiducia”. Le relazioni hanno avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione di “Plebiscito  o Pebliscito” e non si sono sviluppate su un unico piano, ma su tre livelli: con la comunità, gli artisti e il pubblico. All’inizio non è stato facile: come ho già detto, per prima cosa ho dovuto convincere i commercianti; poi gli artisti, che si sono mostrati impauriti dal contesto in cui sarebbero state esposte le opere e restii a prestarle senza nessun tipo di assicurazione. Per ultimo il pubblico, che in alcuni casi ha storto il naso quando ha saputo che la mostra itinerante si sarebbe svolta nel quartiere di San Cristoforo, come a evidenziare che neanche l’arte può sconfiggere il pregiudizio. Eppure, nonostante tutto, a giochi fatti le reazioni su tutti i fronti si sono svelate molto diverse. I commercianti erano entusiasti e dispiaciuti di dover salutare così presto le opere, che per un giorno avevano abitato le loro botteghe; gli artisti e il pubblico incuriositi e soddisfatti di aver preso parte a un evento che si era mostrato come uno squarcio di consapevolezza tra la bellezza e il degrado di ciò che non avevano mai visto o voluto vedere.

Questo progetto è stato per me motivo di grandi soddisfazioni, è stato il culmine di un percorso complesso e allo stesso tempo gratificante. Relational Design mi ha messo a dura prova ma era quello che cercavo da tempo:  è stato capace di farmi conoscere realtà, linguaggi e prospettive del tutto nuove e inaspettate.

Giovanna Vinciguerra guida i visitatori il giorno dell’inaugurazione
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Giulia Micozzi, da Monza a Palermo per tessere relazioni multiculturali

Dall’Internet of Things all’innovazione sociale; da nord a sud per una nuova esperienza formativa multiculturale: vi raccontiamo la storia di Giulia Micozzi, studentessa del Master Relational Design.

Parlaci di te: da dove vieni? E cosa ti ha spinta a frequentare il Master Relational Design?
Vengo da Monza e ho studiato Design del Prodotto Industriale al Politecnico di Milano laureandomi nel 2017. Dopo la laurea sapevo di voler continuare gli studi ma volevo fare una scelta ponderata dell’indirizzo da prendere, motivo per cui ho iniziato a lavorare a Milano, prima seguendo i progetti di un professore del Politecnico, poi da THINGS.is, un’agenzia di design specializzata in IoT. In questa fase ho scoperto grazie ai social il master, che mi ha subito interessato perché data la varietà di argomenti trattati poteva aiutarmi nella ricerca della mia strada.

Adesso che sei quasi alla fine del percorso puoi dirci cos’è per te Relational Design?
Il nome del master è autoesplicativo: relational, relazioni, inteso come creazione di network, e design, il progetto. Questo master ti fa capire l’importanza delle relazioni per la realizzazione di un progetto completo e ben fatto, soprattutto negli ambiti che vengono trattati, come l’innovazione sociale. Non possiamo fare tutto da soli, ognuno ha le sue competenze, durante questi mesi abbiamo scoperto come mischiarle e sfruttarle a vicenda. Questo sia grazie al fatto che ogni modulo insegna le basi di una disciplina diversa, sia perché gli studenti vengono da background diversi.

Da Monza ti sei trasferita a Palermo per lo stage, una scelta in controtendenza rispetto ai tuoi coetanei. Cosa ti ha spinto a farla?
Ho frequentato a Palermo il summer camp del master, Design for Urban and Social Innovation e questa città ha avuto su di me un “effetto calamita”: c’è fermento e voglia di fare, i campi d’azione possibili per progetti interessanti e socialmente utili sono moltissimi. Mi sono così guardata intorno e ho individuato una realtà in cui svolgere uno stage che mi insegnasse come muovermi nell’ambito dell’innovazione sociale: MoltiVolti, che ho conosciuto grazie ai ragazzi di PUSH. Parallelamente sto portando avanti il mio progetto di tesi, sviluppato proprio con PUSH. qui a Palermo.

Cos’è MoltiVolti e di cosa ti occupi al suo interno?

MoltiVolti è un caso-studio perfetto di progetto di innovazione sociale focalizzato sull’inclusione e l’accoglienza. Ai più è conosciuto solo come un ristorante che offre piatti che mescolano culture straniere e cucina siciliana, preparati da ragazzi e ragazze di dieci nazionalità diverse. Il ristorante serve però a mantenere tutta la parte no-profit del coworking di MoltiVolti, che offre il proprio spazio gratuitamente a realtà che trattano gli stessi temi di accoglienza e diritti umani.
Al momento mi sto occupando di comunicazione, un ambito estremamente importante per promuovere le iniziative che MoltiVolti offre alla comunità: i progetti sono vari e di vario genere – dai concerti all’organizzazione di viaggi di turismo sostenibile – e sono quasi sempre svolti insieme a altre associazioni o imprese. L’impatto che ha sulla città di Palermo è quello di trasmettere il valore dell’accoglienza e di far sì che la città diventi un luogo in cui le diversità sono percepite non come una debolezza o una paura ma come un’opportunità. Questo porta a un’integrazione delle comunità straniere facilmente percepibile stando a Palermo.

In che modo il master ti ha aiutata ad affrontare questa nuova avventura e in cosa ti ha cambiata?
Il master, in più di un modulo, mi ha dato la possibilità di conoscere diverse realtà, di capire che la creazione di coworking, reti collaborative e associazioni per il sociale è qualcosa di fattibile e più diffuso di quanto si pensi, su cui ci si sta sensibilizzando e investendo, cercando i mezzi per mantenere in vita queste imprese. Il master mi ha fatto capire che direzione dare al mio futuro, che strada prendere.

Il ristorante di MoltiVolti
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“Gli eventi sono linguaggi”: intervista a Cristian Confalonieri, co-founder di Fuorisalone.it

Cristian Confalonieri è un designer della comunicazione e dei servizi ed è uno dei docenti della nuova edizione del Master Relational Design. Insieme a Paolo Casati ha co-fondato Studiolabo e creato Fuorisalone.it, la guida ufficiale della Milano Design WeekLo abbiamo intervistato.

La comunicazione è un fenomeno complesso: qual è l’approccio di Studiolabo?
La comunicazione è un fenomeno complesso e quindi l’obiettivo di un progettista della comunicazione è di semplificare, non lavorando semplicemente in sottrazione ma creando/usando alfabeti comuni, simboli e scenari condivisi. Si tratta di governare la complessità. Amiamo le simulazioni, per cui tentiamo di immaginare gli scenari d’uso, anche più improbabili, all’interno dei quali i nostri messaggi verranno veicolati. Ci vuole molta immaginazione, si torna bambini.

Da dove nasce l’idea di Fuorisalone.it?
Da una sera di 15 anni fa. Allora studenti di design, tornammo a casa una sera durante un Fuorisalone e con naturalezza cercammo su Google informazioni sull’evento per pianificare cosa fare il giorno successivo. Ma non trovammo nulla. E scoprimmo che il dominio Fuorisalone.it era libero e lo comprammo subito. L’anno successivo il mio socio si laureò con una tesi sulla comunicazione del Fuorisalone e realizzammo le prime versioni del sito, che non erano altro che blog in cui raccontavamo le nostre esperienze.
Oggi Fuorisalone.it è lo strumento online ufficiale per orientarsi tra gli eventi della Milano Design Week.

Ti occupi anche di marketing territoriale. Di cosa si tratta?
Da Studiolabo amiamo il digitale, ma anche l’aspetto territoriale è sempre stato elemento di studio. Rimaniamo sempre affascinati delle mappe. Per “marketing territoriale” si intende un sistema di progetti ed attività che ha l’obiettivo di sviluppare un territorio e di trasformarlo possibilmente in un brand. Abbiamo realizzato molti progetti: dal primo, BASEB in zona Bovisa a Milano, che ha anticipato il concetto di coworking in Italia, fino al nostro più grande successo, Brera Design District, che oggi è un brand internazionale.

Parlando di progetti, qual è il quello che ti sta più a cuore?
Tutti i progetti che abbiamo fatto e faremo senza committente: siamo autori oltre che consulenti. Per esempio il documentario su Pierluigi Ghianda o il gioco da tavolo del Fuorisalone sono due ottimi esempi di progetti che grazie ad un’ottima rete di collaborazioni hanno raggiunto risultati notevoli da ogni punto di vista.
Un altro progetto che mi sta a cuore sono le consulenze strategiche e di comunicazione che sviluppiamo per gli ospedali. Siamo fornitori dell’Ospedale Niguarda, del Policlinico di Milano e del Fatebenefratelli e avere a che fare con una sfera pubblica così importante per i cittadini è sempre motivo di grande impegno e responsabilità.

“Gli eventi come strumento di comunicazione” è il summer camp della prossima edizione del master: quali sono le potenzialità dell’evento come media al giorno d’oggi? Dacci anche qualche anticipazione sul corso!
L’evento è un media a tutti gli effetti, forse attualmente il più incisivo ed efficace per una ben definita famiglia di messaggi da veicolare. Ne abbiamo scritto approfonditamente in questo articolo su Medium.
Il Summer Camp che terrò a maggio 2020 è un laboratorio: ci saranno dei contenuti teorici ma l’aspetto fondamentale è che trasmetterò un metodo pratico per approcciare la progettazione degli eventi, che è particolarmente complessa perché richiede un lavoro in team molto ben organizzato. Propongo un metodo con l’intenzione però di lasciare la libertà a ciascuno di trovare il proprio, perché non esiste un modo univoco per sviluppare eventi. Durante il laboratorio in gruppi creeremo davvero progetti di eventi su brief reali di aziende.

Il workshop “Gli eventi come strumento di comunicazione” si terrà ad ABADIR dal 14 al 20 maggio 2020.
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La nuova edizione del Master Relational Design inizia il 1° ottobre 2019:
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Cristian Confalonieri e Paolo Casati

 

 

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BienNoLo, l’arte contemporanea che genera innovazione sociale. Intervista a Gianni Romano

Foto: Fabrizio Stipari

Dal 17 al 26 maggio 2019 negli spazi dell’Ex Laboratorio Panettoni Giovanni Cova a Milano si terrà la prima edizione di BienNoLo, la biennale d’arte contemporanea di NoLo, il distretto multietnico della creatività nella periferia nord-est di Milano.
Ne abbiamo parlato con Gianni Romano.

Che cos’è e come nasce BieNoLo?
Negli ultimi anni con ArtCityLab – associazione culturale che abbiamo fondato nel 2015 con Rossana Ciocca – ci siamo impegnati a realizzare progetti di arte pubblica, opere non “protette” da un contesto istituzionale o familiare, dal ristretto circolo del mondo dell’arte, ma esposte alla verifica del territorio, pronte a dimostrare una propria componente educativa o a non lasciare alcun segno, a durare soltanto lo spazio di un passaggio. L’esperienza maturata in questi pochi anni sul territorio milanese, la reazione di un pubblico che è sempre imprevisto, ci ha fatto capire quanto in realtà ogni città abbia bisogno di un ArtCityLab, di un laboratorio permanente, che faccia capire alle varie componenti istituzionali e professionali che innovazione culturale significa innovazione sociale.

Eppure Milano vista da fuori sembra un contesto privilegiato, dove succede di tutto, dove non mancano le proposte. Magari mancava una Biennale d’Arte?
Devo ammettere che questa è una domanda che mi fanno appena esco da Milano. Vivere in un centro urbano già ricco di iniziative non significa che non ci sia altro da fare. Una mostra come BienNoLo vuole dare visibilità ad un grande laboratorio culturale che raramente trova diritto di cronaca nel racconto della città modello che negli ultimi anni è diventata Milano. In ogni ambito della creatività si tende a guardare alla cima senza considerare che questa è il frutto di tantissime persone che contribuiscono ad arricchire quel campo. Se spostiamo l’attenzione dall’arte alla moda questo è ancora più evidente: da una parte i grandi nomi che sono sotto gli occhi di tutti, ma la base è molto larga ed è composta da persone e piccoli marchi che magari lavorano anche con grandi aziende e da altre che hanno vita propria e spesso per un pubblico giovane sono l’unica realtà frequentata. Insomma, non c’è altezza senza base. Curando questa prima edizione di BienNoLo abbiamo voluto restituire al grande pubblico l’immagine di una biennale che mira a registrare e presentare il lavoro svolto negli studi da artisti scelti grazie alle nostre conoscenze, alla loro attività degli ultimi anni, ma anche in base ai limiti che lo spazio della mostra pone a chi si appresta a lavorarci. Certamente le caratteristiche dello spazio industriale che ospita l’esposizione, la mancanza di corrente elettrica, grandi spazi senza tetto e la presenza di vegetazione spontanea, hanno costituito un motivo di selezione più forte di ogni moda corrente.

A proposito dello spazio espositivo, dicci di più sulla location scelta e sul quartiere che la ospita. 
L’ex Laboratorio Panettoni Cova, in una traversa di Viale Monza, è un bellissimo esempio di archeologia industriale. Si tratta di uno spazio già noto agli amanti del design durante il Salone del Mobile. È abbastanza complicato trovare un luogo adatto per tanti artisti, soprattutto se esci dai soliti luoghi nati per presentare mostre. Eppure la storia dell’arte è anche una storia di luoghi (non solo di città), dalle mostre degli impressionisti nello studio del fotografo Nadar a quelle negli appartamenti (tipiche di luoghi in cui manca un sistema dell’arte e che l’attuale crisi economica ha fatto tornare in auge),  dalle mostre nei garage a quelle nelle stanze d’albergo. Hans-Ulrich Obrist realizzò la sua prima mostra nel frigorifero di casa sua! Ogni luogo è deputato all’arte, purché la presenza dell’arte comporti una presenza di senso, perché l’arte sia contemporanea non serve solo presentare l’arte nuova, ma anche a ricordarci ciò che facciamo e ciò che siamo.

Tu sei uno dei quattro curatori: come avete lavorato al progetto?
L’idea di fare una BienNoLo nasce da un invito di Carlo Vanoni, al quale ArtCityLab ha aggiunto Matteo Bergamini. Carlo è autore teatrale e autentico divulgatore dell’arte, com’è evidente dai suoi spettacoli e dal libro A piedi nudi nell’arte appena uscito per Solferino Libri, ma anche dal modo in cui usa i social. Matteo Bergamini è direttore della rivista Exibart ma lo vedo in giro per gallerie da anni, è abituato al clima vivace dell’arte giovane per cui la curatela diventa quasi una pausa di riflessione… Ognuno di noi ha un suo stile che corrisponde al modo in cui ci siamo formati. Per una mostra come questa il vantaggio è stato quello di potersi dividere i compiti, mentre di solito il singolo curatore deve potersi fidare di assistenti capaci. La struttura curatoriale di BienNoLo non è piramidale invece, ci sono quattro curatori e una base di volontari che abbiamo diviso tra logistica, comunicazione e presenza sul campo. Lo spirito di collaborazione e il coinvolgimento del quartiere di Nolo sono la cosa più bella di BienNoLo: pensa che un gruppo di artisti si è associato nel progetto Habitat e quando la mostra chiude alle 20:00 loro aprono i propri studi al pubblico.

Il titolo di questa prima edizione è “eptacaidefobia”: cosa significa e in che modo si lega alle opere, alle installazioni e agli artisti presenti?
Eptacaidefobia è una parola greca. Sembra uno scioglilingua, ma si riferisce alla paura del numero 17. Proprio il 17 maggio c’è l’opening della mostra e quindi abbiamo preso questa fobia dal carattere folcloristico come esempio di tutte le paure, invitando gli artisti a mettere in scena una fobia contro qualsiasi tipo di paura. Naturalmente ci sono paure personali che diventano collettive, come accade alla cronaca dei nostri giorni, e altre che sono figlie di percorsi interiori.

BieNoLo si terrà dal 17 al 26 maggio 2019 negli spazi dell’Ex Laboratorio Panettoni Giovanni Cova, in via Popoli Uniti 11 a Milano.
Visita il sito ufficiale

Gianni Romano fotografato da Fabrizio Stipari
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Print Club Torino: “sporcarsi le mani” e far emergere la cultura creativa

Architetto, pittore, scultore, graphic designer, fondatore del Print Club Torino, curatore dei Torino Graphic Days e docente di Editoria Creativa all’interno del Master Relational Design: abbiamo intervistato il poliedrico Fabio Guida!

 

Cos’è un Print Club?
“Print Club” non è un marchio riconosciuto ufficialmente a livello nazionale o internazionale, tuttavia con questo termine intendiamo i laboratori nati spontaneamente in vari paesi d’Europa e del mondo dedicati alle diverse tecniche di stampa come risograph, serigrafia, letterpress e tante altre. Esistono molti Print Club nel mondo, ma il nostro è la prima realtà che ha intrapreso la mission di provare a riunirli tutti all’interno della stessa rete. A partire dall’anno scorso, infatti, abbiamo avviato alcuni canali di comunicazione con gli altri attori, promuovendo mostre e scambi internazionali, sia di materiali, sia di persone. In alcuni casi, come il nostro o quello dell’Urban Spree di Berlino, il Print Club è anche l’ente organizzatore di un festival dedicato al graphic design, per cui ha un team che lavora tutto l’anno per avere un momento di restituzione pubblica, la manifestazione, in cui venga sancita questa volontà di scambio e confronto. Festival come Torino Graphic Days o Berlin Graphic Days rappresentano grandissime opportunità per sensibilizzare pubblici diversi al tema del graphic design e delle arti visive in generale.


Le competenze del vostro team sono diverse e non tutte provengono dal mondo della grafica o della progettazione in generale. Cosa vi ha spinto a creare un luogo del genere? E perché a Torino?
Quella di creare un laboratorio di sperimentazione e arti grafiche è stata un’esigenza scaturita dal poter avere a disposizione un luogo di contaminazione tra competenze e professionalità diverse, valorizzando l’artigianalità intesa come recupero di tutte quelle attività legate al mondo dell’editoria e della stampa che negli ultimi anni si sono indebolite e rischiano di andare perdute.
Il nostro progetto, Print Club Torino, nasce nel 2015 proprio dalla volontà di creare uno spazio in cui si potesse fare sperimentazione grafica avendo a disposizione dei macchinari che altrimenti sarebbero stati difficilmente reperibili per l’utente all’interno del medesimo luogo. Il laboratorio, fondato dalle associazioni culturali Plug e Try Again Lab, risponde quindi all’esigenza di studenti, giovani artisti e professionisti del settore, di procedere in autonomia alla realizzazione dei propri progetti grafici senza l’intervento di intermediari, ma “sporcandosi le mani” in prima persona.
La mission di Print Club Torino però non si esaurisce nella costituzione di un luogo fisico, ma intende essere una comunità che faccia emergere la cultura creativa torinese capace di coinvolgere, da un lato, scuole, imprese ed enti istituzionali, dall’altro gli attori della rete internazionale.


Il laboratorio nasce all’interno di una struttura molto particolare: ToolBox. Come funziona e come ha influito sul vostro percorso?
Il Toolbox è il primo coworking di Torino: uno spazio nato dalla rigenerazione di una vecchia fabbrica manifatturiera dove confluiscono una grandissima varietà di professionalità e percorsi che danno vita a nuove relazioni. Ciascuno occupa una parte di questo spazio a seconda delle proprie necessità e disponibilità ma la vera risorsa è rappresentata dalle parti comuni (sale conferenze, luoghi di incontro informali, ampi spazi liberi) e dai tanti momenti di confronto trasversale fra le attività. Ad esempio qui si organizza una giornata annuale dedicata ai freelance, con un fittissimo programma di incontri, qui risiedono importanti aziende tecnologiche internazionali come Arduino o laboratori di ricerca del Politecnico di Torino. Questa ricchezza eterogenea di contenuti ci permette di venire a contatto con moltissime realtà e di partecipare attivamente agli eventi e manifestazioni promosse da Toolbox. Inoltre, durante i Torino Graphic Days, abbiamo l’opportunità di colonizzare ed allestire l’intera struttura con le nostre esposizioni, performance, talk e attività con il pubblico.


Quanto è importante per voi ridurre l’impatto ambientale del vostro laboratorio? Quali sono le vostre politiche a riguardo?
Siamo sensibili all’argomento e cerchiamo di attivare dei processi che tendano a ridurre gli scarti non generale. In particolare utilizziamo solo inchiostri a base acqua per la serigrafia, andando ad eliminare quindi odori e parti tossiche legate ai solventi, nonché al loro smaltimento e pulizia. Abbiamo installato un anno fa un impianto di ricircolo delle acque a circuito chiuso che ci permette di non scaricare i residui delle nostre lavorazioni (lavaggi telai ad esempio) direttamente nelle fogne ma di stoccare le acque, e poi smaltire con una ditta specializzata. Interventi di questo tipo sono investimenti molto importanti ma necessari se si tende ad una riduzione dell’impatto ambientale significativo.


Sei il curatore dei Torino Graphic Days. Parlacene!
Torino Graphic Days è una kermesse internazionale di quattro giorni interamente dedicata al visual design che ogni anno, nel mese di ottobre, ospita un fitto calendario di appuntamenti, tra cui workshop, conferenze, performance, mostre, dj-set e una mostra-mercato con artisti e professionisti internazionali.
La manifestazione nasce con l’intento di accorciare le distanze fra i non addetti ai lavori e il mondo del visual design, portando a Torino gli artisti più interessanti del panorama europeo della comunicazione visiva.
Nel mese che precede il festival, l’organizzazione dedica alla scena culturale torinese un palinsesto di appuntamenti diffusi in diverse location della città: il programma “In the city”, infatti, propone un calendario di eventi dedicati alle arti visive che coinvolgono il tessuto cittadino promuovendo le eccellenze torinesi della grafica e della comunicazione.
Il festival ha all’attivo tre edizioni e nel 2018 raggiungerà il quarto capitolo del progetto, ma, in realtà l’iniziativa nasce molto prima. Con l’associazione culturale PLUG – tra gli enti organizzatori di Torino Graphic Days – è dal 2010 che organizziamo conferenze, workshop, contest e mostre con artisti e professionisti internazionali della comunicazione visiva.
Ad oggi, Torino Graphic Days non è più soltanto un festival, ma un progetto a 360 gradi che, oltre alla manifestazione vera e propria, si configura come un calendario di eventi che durano tutto l’anno e come un osservatorio sul visual design capace di dare rilevanza a tutti gli eventi del territorio legati al settore.
Il progetto coinvolge anche le persone più lontane dal mondo del graphic design attraverso l’innovazione sociale e l’engagement: molto spesso i temi espressi dai lavori che includiamo nel festival e nelle iniziative collaterali partono da una necessità sociale, veicolando quindi messaggi positivi e buone pratiche, messaggi potenti, talvolta provocatori. Il coinvolgimento dell’audience passa dunque attraverso attività che invitano alla riflessione, che fungano da stimolo per l’attivazione di processi in grado di indurre a modificare il proprio comportamento in maniera positiva rispetto ad una determinata tematica.


Che relazione c’è fra un laboratorio creativo di stampa e arti grafiche e il master?
Molto spesso le Accademie, i corsi universitari o le scuole in genere assolvono molto bene alla parte teorica del programma ma si trovano in difficoltà nello svolgimento delle parti pratiche. Non sempre sono disponibili laboratori dedicati a più tecniche di stampa, come accade al Print Club, in cui poter fare esperienze trasversali, mixare le soluzioni tecnologiche e fare della sperimentazione per le proprie produzioni artistiche. In questo possiamo essere di supporto; offrendo la strumentazione, un tutoraggio competente e la possibilità di lavorare in team per il raggiungimento di un obiettivo finale, sia esso una produzione artistica, un portfolio personale o un progetto sperimentale. Ci piace parlare di co-progettazione con chi utilizza i nostri servizi.
Le strade del Print Club Torino e di Relational Design si sono incrociate grazie 
a Stefano Mirti, direttore del master, con cui abbiamo attivamente collaborato in più progetti e successivamente grazie a due degli studenti, Nuphah Aunynuphap e Silvia Lanfranchi, che hanno sviluppato il progetto editoriale The New Publishing come tesi del master e iniziato ad utilizzato il nostro laboratorio per le loro autoproduzioni e stampe.


Print Club Torino ha accolto numerosi studenti del master come tirocinanti. In che modo prendono parte alla vita del laboratorio?
Gli studenti del Master, e tutti gli altri nostri tirocinanti, vengono istruiti su tutte le tecniche di stampa presenti in laboratorio sia durante le giornate di workshop, a cui possono prendere parte gratuitamente, sia durante il normale svolgimento delle attività. Inoltre con ciascuno di essi si cerca di costruire un percorso personale che tenga conto delle specifiche ambizioni e competenze e che metta in risalto delle capacità e interessi personali. Il confronto con il pubblico è un’altra delle mansioni su cui vengono formati gli studenti, che saranno presto in grado di accogliere gli utenti del laboratorio e di poter fornire loro le informazioni principali di contatto. Ogni giornata al Print Club si compone in maniera differente e le opportunità per chi vi partecipa sono potenzialmente infinite! 


A dicembre 2018 da Print Club si terrà un nuovo modulo del master: puoi darci qualche anticipazione?
Faremo interagire digitale e analogico facendo sporcare le mani a tutti i partecipanti. Il focus sarà incentrato su come veicolare temi culturali e/o sociali ad un pubblico allargato attraverso l’interazione di tecniche di stampa tradizionali e contemporanee cercando di immaginare sistemi di engagement per coinvolgere il pubblico a essere parte attiva del progetto. Individuate le tematiche su cui operare il workshop utilizzerà gli strumenti messi a disposizione dal Print Club Torino per creare supporti editoriali sperimentando l’interazione di diverse tecniche di stampa. Il progetto prevedrà il collegamento dei supporti analogici creati con sistemi di comunicazione social e digitali in grado di amplificare e diffondere i contenuti.

Scopri di più sul workshop Editoria Creativa: Analog vs. Digital, che si terrà al Print Club dall’11 al 15 dicembre. Le iscrizioni sono aperte!


Fabio Guida

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PUSH, l’innovazione che parte dalle persone – Master Relational Design

Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Toti Di Dio, Mauro Filippi e Domenico Schillaci, fondatori di PUSH e docenti di Service Design all’interno del Master  Relational Design.

Cos’è PUSH e di cosa si occupa?
(D) Ciao! PUSH è un laboratorio di design per l’innovazione urbana con base a Palermo. Progettiamo e sviluppiamo servizi con l’obiettivo di rendere le città più sostenibili e i cittadini più felici e lo facciamo attraverso progetti di ricerca applicata, attività di partecipazione o iniziative di innovazione sociale.
Allo stesso tempo ideiamo programmi di formazione incentrati su questi temi e ogni tanto organizziamo anche qualche evento a Palermo per parlare di cose che ci interessano.
Se resta tempo ci trovate al Monkey Bar in piazza Sant’Anna (sotto il nostro ufficio) a bere un caffè o una birra a seconda dell’ora.

Cosa vuol dire per voi Service Design?
(D) Lo consideriamo un approccio estremamente utile per affrontare criticità e risolvere problemi, che si tratti di migliorare l’esperienza dei cittadini o di facilitare l’interazione tra diversi attori in un determinato contesto.

Avete deciso di intraprendere questa avventura in Sicilia, perché?
(T) PUSH nasce a Palermo nel 2013 con l’ambizione di essere una risposta costruttiva ed efficace alla crisi economica e culturale che si soffre ormai da anni in Italia e soprattutto al Sud. Nasce da siciliani che, dopo aver studiato e lavorato come progettisti in giro per il mondo, sognavano di poter vivere e costruire valore a casa loro.
PUSH è la scommessa di un gruppo di amici si sono ostinati a credere che si possa parlare di “innovazione” e “tecnologia” anche in Sicilia, e che sono anche convinti che su questi due concetti si possa basare una strategia vincente per il rilancio dell’intero territorio. Non bisogna essere Google o IBM per spingere all’innovazione un territorio, anzi. Serve solo un po’ di coraggio, metodo e tanta determinazione per farsi artefici di importanti trasformazioni.

Lavorare a Palermo pensiate abbia reso il vostro lavoro più difficile o più stimolante? (T) La scelta di Palermo non è stata casuale: per alcuni di noi è la città natale (per gli altri, trapanesi e alcamesi, ormai una seconda casa), quella in cui desideriamo lavorare, ma soprattutto è uno di quei luoghi “a margine” in cui poter testare soluzioni e progetti. Palermo è un luogo ricchissimo, ha una storia sconfinata e talenti eccezionali, ma ha anche troppe criticità che vogliamo risolvere e affrontare, poco a poco. Ci ripetiamo sempre che se un progetto funziona a Palermo può funzionare dappertutto. Le difficoltà in questi anni non sono di certo mancate e spesso non abbiamo trovato il supporto necessario o abbiamo dovuto penare per ottenerlo, ma è stato sempre stimolante e nonostante tutto siamo riusciti a tirare fuori e testare a Palermo progetti che ci hanno consentito sì di restare legati al territorio, ma anche di avvicinarci tanto all’Europa e al resto del pianeta. Questo è un modo per ridare a Palermo qualcosa e che ci fa sentire meno soli.

Al centro di molti dei vostri progetti mettete le persone e le comunità di cui fanno parte. Quale di questi vi ha restituito di più a livello personale?
(M) Lavorare con le comunità di quartiere ci ha sempre regalato grandi soddisfazioni, restituendoci un bagaglio di esperienze davvero difficile da quantificare. Comunità però sono state anche in un certo senso quelle degli studenti e dei partecipanti ai nostri corsi e ai laboratori: le “intensive school” o le “service jam” che abbiamo co-progettato e realizzato in rete ad esempio sono stati dei momenti di profondo scambio e crescita professionale. Utente, cittadino o studente, il nostro principale interlocutore è sempre la persona.   

Di recente un vostro progetto, Borgo Vecchio Factory, ha ricevuto la menzione d’onore dalla giuria del Premio Compasso d’Oro ADI 2018. Diteci di più!
(M) Borgo Vecchio Factory per noi rappresenta una delle prime vere sperimentazioni progettuali su scala urbana e di quartiere: un progetto bottom-up che mette insieme tecnologia (crowdfunding), arte (street art) ed educazione (workshop). In partnership con l’associazione Per Esempio – che da anni si occupa di educazione non formale nel quartiere Borgo Vecchio di Palermo per far fronte al problema della dispersione scolastica – abbiamo ideato insieme allo street artist comasco Ema Jons un ciclo di laboratori di arte urbana con il coinvolgimento di vari artisti. La campagna di crowdfunding ha ottenuto in un mese il 170% del monte richiesto e ha permesso di sperimentare nel quartiere una pratica di coinvolgimento e animazione del che ha dato vita in poco tempo ad un vero e proprio museo a cielo aperto tra le vie. Sono stati realizzati circa 30 grandi murales, coinvolti una sessantina di bambini di varie fasce d’età, riqualificato il campetto di calcio e tenuti dei workshop di ricamo, poster art, restauro creativo, disegno e pittura.  

Come entrano in gioco le nuove tecnologie nei progetti di Service Design per le comunità?
Attraverso la tecnologia PUSH cerca di stimolare l’interazione con le comunità attraverso la tecnologia. Attraverso il progetto Sant’Anna Jamming ad esempio, dopo un workshop che ha visto coinvolti vari studenti di architettura e design per riattivare Piazza Sant’Anna all’indomani della pedonalizzazione, è stata coinvolta la cittadinanza nella votazione del progetto migliore da proporre poi all’amministrazione comunale. Con il progetto Open Tour sono stati utilizzati i dati messi a disposizione dal comune di Palermo per offrire un servizio gratuito di mappature dei punti di interesse culturale ed è stata data ai cittadini la possibilità di contribuire con segnalazioni e datathon. Il progetto ha poi avuto un seguito a Milano e presto anche a Bari. E infine il crowdfunding, che è servito a finanziare dal basso due progetti in aree marginali, come nel caso di Borgo Vecchio Factory e di Danisinni Circus (all’interno del più ampio progetto Rambla Papireto).

Nel vostro lavoro non c’è solo la progettazione: spesso siete impegnati in attività didattiche come il Master Relational Design o altri workshop in Italia e all’estero, dove in pochi giorni – o addirittura poche ore – dovete riuscire a trasmettere un metodo ai vostri studenti. Qual è il vostro approccio all’insegnamento?
(D) Semplicemente cerchiamo di trasmettere quello che impariamo ogni giorno con il nostro lavoro e la nostra attività di ricerca. Per noi è un’attività molto utile perché ci consente di sintetizzare e organizzare tutte le informazioni, i casi studio e gli strumenti che quotidianamente utilizziamo in modo coerente e allo stesso modo in un certo senso ci obbliga a restare sempre aggiornati, il che nel nostro ambito è un aspetto fondamentale.
L’attività didattica ci piace davvero tanto perché ci consente ogni volta di provare qualcosa di nuovo e non esagero quando dico che per noi è anche un modo per imparare tanto. Il nostro approccio è molto informale e incentrato sull’azione: che si tratti di costruire un prototipo, intervistare delle persone, disegnare un’interfaccia o girare un video solo realizzando qualcosa e testandola si riesce a capire se può funzionare davvero.  

A proposito del master: proprio quest’anno avete tenuto a Palermo il summer camp Design for Urban & Social Innovation, in cui molti degli studenti venivano da altre città d’Italia o addirittura da altre nazioni: parlateci di questa esperienza e di come avete affrontato questa “sfida”.
(D) Ci piaceva l’idea di utilizzare Palermo come playground per gli studenti, quindi, dopo aver passato la prima giornata a girare la città incontrando imprenditori, attivisti e artisti locali abbiamo chiesto loro di individuare uno specifico bisogno e di progettare un servizio che fosse in grado di risolverlo.  Naturalmente all’inizio c’è stato un po’ di smarrimento, del resto non è facile calarsi da subito in un contesto urbano nuovo e comprenderne dinamiche e relazioni, così come riuscire a individuare le informazioni chiave quando si è bombardati da una enorme quantità di input, ma anche questo fa parte del processo su cui vogliamo che i ragazzi si confrontino.
È stato bello vedere giovani provenienti da tante realtà diverse confrontarsi con la nostra città, cercare di capirla e sforzarsi per pensare a qualcosa che possa produrre un cambiamento positivo in così pochi giorni; è stato stancante ma alla fine eravamo tutti soddisfatti e crediamo che questa sia la cosa più importante.

Qual è la connessione fra il Service Design e il Relational Design?
(D) Qualsiasi servizio ha come obiettivo quello di offrire ai chi lo utilizza la migliore esperienza possibile; ogni esperienza a sua volta si basa su una serie di relazioni e interazioni. In quest’ottica è fondamentale essere in grado di progettare con e non solo per le persone, conoscere bene i nuovi media digitali ed essere in grado di comunicare in modo chiaro ed efficace; per questo approfondire il design delle relazioni è importante. Per il prossimo anno abbiamo in programma un nuovo modulo all’interno del Master Relational Design ma preferiamo non svelare nulla, anche perché l’effetto sorpresa è una delle cose su cui puntiamo! L’unica cosa che possiamo dire è che sarà diverso da quello dello scorso anno e come ogni volta cercheremo di proporre qualcosa di nuovo.

 

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Gli studenti internazionali di Relational Design: Marília Traversim Gomes

Da São Paulo (Brasile) a Catania per studiare Relational Design e poi a Milano per un importante opportunità di stage: Marília Traversim Gomes ci ha raccontato la sua esperienza – personale e professionale – all’interno del master.


What brought you to Italy?

In 2015 I came to Italy to visit my sister, who had recently moved to Sicily. At the time I worked as an assistant-editor in a big publishing house in Brazil but I wasn’t happy with it. As the editorial market slowly collapsed, I felt that my job position was getting more and more precarious and I couldn’t see any improvement or professional growth in the near future.
The trip to Sicily came right when I was thinking about the future, forced to accept the fact that I needed a change. Like everyone else I fell in love with Sicily – with its colors, the flavors, the people, mount Etna and the sea. “This is a place where I could be happy” I remember telling my sister, who suggested that I actually came to live there for a while. And so I did: I took this big leap of faith and started over.


How did Relational Design came into the picture?
I found out about it by searching online for design courses and events happening in Sicily. At that point I already knew that I wanted to live in Catania, it was just a matter of finding something that kept me busy and inspired! I particularly liked the fact that Relational Design not only allowed me to see how design was made across the ocean, but also gave me the opportunity to travel around Italy and to experience different aspects of this culturally and historically rich country.
It was just what I was looking for and now that is almost over I can honestly say that I had a great time! I just wish it was longer… I am not ready to say goodbye.


If you had to describe Relational Design in one word, what would it be?

Dynamic. Every month is completely different from the other: new subject, new teacher, new city, new students – new everything! In every module I learned something new, met new people,  made new friends and built a deeper bond with those that were already there since the beginning of this journey.


What was your favorite moment and why?
Since I come from an editorial background, I really enjoyed visiting Internazionale and Zero. It was really interesting to observe how magazines work in a different country. On an academic level, I loved the workshops in Palermo and in Amsterdam, because I had never studied service design before and everything was new to me.


Has the master changed you in any way?
Of course, it gave me a different perspective in a lot of ways. Professionally, it showed me different ways to make good design and how to mix and match different areas of knowledge and resources. On a personal level, it allowed me to experience a very international environment and to meet a lot of different people, with backgrounds very different than mine. I was able to share a bit of my culture with my colleagues and learn a little bit of theirs. Now I can say I have friends all over Italy.


What are you doing now or what are planning on doing in the near future?
I recently moved to Milano to work as an intern at Subito.it. Before doing the master I don’t think I would have been able to get the position. Relational Design played a really important part in the interview!
I plan on continuing to work as a designer in Italy. I don’t know exactly where this adventure will take me, but I am really happy about how far I have been able to go.

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Progettare per il turismo e per valorizzare il territorio: l’esperienza di Giudita Melis

Cosa fanno gli studenti di Relational Design dopo il master?
Dopo aver svolto lo stage curriculare a Casa Netural – incubatore, coworking e coliving con sede a Matera – Giudita Melis ha deciso di fondare una realtà analoga nella sua terra, la Sardegna. L’abbiamo intervistata.

Qual è il tuo percorso accademico e come sei approdata al master?
Ho iniziato i miei studi a Cagliari, la città dove sono nata, ma dopo l’Erasmus in Francia ho capito che difficilmente sarei rimasta ferma in quel posto e ho proseguito all’Università per stranieri di Perugia, con una laurea magistrale in Lingue moderne per la comunicazione internazionale.
Ho sempre approfittato di tutte le opportunità che uno studente ha di viaggiare, lavorare, studiare all’estero per due motivi:
– Muoversi, viaggiare, cambiare ti rende estremamente ricco!
– Ho capito di avere una forte dipendenza da viaggi e non riuscivo a farne a meno.
Ho poi scoperto il Master per caso su internet, leggendo l’intervista di un’ex-studentessa. Mi ha appassionato tantissimo e ho voluto saperne di più. Sentivo il bisogno di cambiare qualcosa, di scoprire qualcosa di nuovo in me che ancora non conoscevo. E così mi sono iscritta.


Il master prevede lo svolgimento di un tirocinio: cosa ti ha portato a scegliere proprio Casa Netural?
Grazie al master ho conosciuto una serie di realtà che mi hanno affascinato tantissimo e che hanno stimolato in me molte idee. Così ho approfondito la ricerca e, dopo aver letto e riletto, Casa Netural era quella che mi sembrava più autentica, più vicina a me e ai miei desideri e soprattutto a ciò che mi ero messa in testa di creare nella mia città, Cagliari.
Entrare a Casa Netural è come entrare in un vortice da cui poi è difficile staccarsi e che anche se ti allontani mantiene sempre la porta aperta. Lì ho conosciuto delle persone fantastiche: quelle che ci lavorano, quelle che vanno solo per i pranzi o le cene, quelle che passano per un fine settimana o per mesi e che vogliono imparare l’italiano. La cosa bella è che con ognuna di loro si riesce a creare dei legami speciali e sembra davvero di far parte di una grande famiglia. È una scoperta continua, un punto d’incontro e di scambio importantissimo in una città come Matera.
Perché Matera è così, non sai quello che trovi ma poi non vorresti lasciarlo mai. Non è solo la città dei sassi, la città-presepe, quella è solo la cornice: dentro è di una bellezza ancora più disarmante.


Di cosa ti sei occupata?

A Casa Netural mi sono occupata principalmente della comunicazione, prima affiancando Samuele, il responsabile della comunicazione, e gestendo poi autonomamente alcuni progetti – nello specifico: i social del Coliving, del progetto il Quartiere ri-luce e del festival Matera Design e del progetto sperimentale di rigenerazione urbana  Wonder Grottole. Quest’ultimo è stato quello che ho portato avanti fino alla fine del mio tirocinio ed è stato davvero interessante e coinvolgente poter collaborare nel mio piccolo alla rinascita del borgo di Grottole, aver gestito quasi interamente una campagna di crowdfunding e aver imparato davvero tanto dagli errori e dalle nuove sfide che si presentavano.

 

Sei di Cagliari e attualmente vivi  a Matera: ci sono delle realtà o progetti interessanti nel campo del design o della comunicazione al sud Italia che vuoi segnalarci?
Durante la mia esperienza a Casa Netural ho avuto la fortuna di scoprire un’altra realtà, Materahub, un consorzio che opera in ambito internazionale e supporta imprese, start-up, aspiranti imprenditori, istituzioni e organizzazioni attraverso progetti europei. Sono stati la mia “seconda famiglia”, ho iniziato la collaborazione con loro occupandomi della comunicazione dei progetti europei. Un mondo nuovo da un punto di vista professionale e che mi ha sempre incuriosito e affascinato. Il loro lavoro per la comunità locale è fondamentale perché, oltre ad avere un’ampia rete europea di progetti, hanno un’estrema attenzione per il territorio, per le persone, per le idee che aiutano con tanta professionalità a portare avanti, puntando sulla voglia di fare e sulla cultura all’imprenditorialità.
I progetti interessanti a Matera sono davvero tanti, soprattutto in vista del 2019, anno in cui sarà Capitale Europea della Cultura. Vi segnalo tutti quelli affidati a varie realtà locali in co-progettazione con la Fondazione 2019, naturalmente Wonder Grottole, l’Open Design School e l’iniziativa di un gruppo di giovani lucani che vogliono attivamente lavorare per il territorio e per i più giovani, chiamato appunto Generazione Lucana.


A chi consiglieresti Relational Design?
Consiglierei il master a chi vuole mettersi in gioco e/o ripartire con qualcosa di nuovo, lo consiglierei a chi ha bisogno di nuove idee per rigenerarsi, a chi non ha avuto la possibilità di viaggiare tanto, a chi sente che quello che sta facendo non è abbastanza e ha il desiderio di rinnovarsi, a chi ha bisogno di nuovi contatti e nuove prospettive.

 

Progetti per il futuro?
E qui arriva il bello.
Dopo un percorso di scoperta, dubbi e nuovi stimoli, è arrivato il momento di agire.
Già da un po’ di tempo sto lavorando a un mio progetto di coliving/coworking ed è questo il motivo che mi ha spinto a Matera, a Casa Netural, a vivere da vicino questa realtà, conoscerne gli aspetti positivi e negativi e imparare il più possibile in modo da poter poi lavorare sul mio progetto di coliving, che sorgerà a breve a Cagliari: da settembre tornerò infatti in Sardegna per far nascere Casa Melis, il primo coliving della regione. Ho scelto di chiamarlo così come segno di riconoscenza verso Casa Netural, che mi ha arricchito sotto mille punti di vista, mi ha dato nuove conoscenze, competenze, contatti, idee, ispirazione, che mi ha fatto incontrare delle persone fantastiche che hanno davvero lasciato un segno indelebile nel mio percorso professionale e personale, e verso Raffaele Vitulli di Materahub, grande fonte di ispirazione.
Voglio mettere in pratica la mia idea di turismo: mi infastidisce lo sfruttamento, il viaggiare senza uno scopo, senza prestare attenzione al posto dove si sta temporaneamente vivendo. 
Di conseguenza mi piace l’idea che chi viene nel posto che per me è casa possa trascorrere del tempo con le persone che davvero lo conoscono, possa davvero pensare di essere parte di quella comunità per un po’. Mi piace pensare che una persona possa avere il desiderio di viaggiare in un’isola come la Sardegna non solo per scoprire quanto è trasparente l’acqua o quanto è bianca la sabbia, ma anche per sapere che esiste un paesino nell’entroterra dove si creano delle maschere fantastiche che raccontano una storia, che la maggior parte dei paesi sono abitati da persone estremamente ospitali anche se a prima vista chiuse, che Cagliari è una città bellissima anche se non puoi trovare posti come il Colosseo o i Musei Vaticani, che ci sono delle tradizioni e che non devono essere snaturate o perdute.

Vi terrò aggiornata sui progressi di questo progetto di cui sono già follemente innamorata!

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Nuovi continenti, nuovi orizzonti, nuove opportunità – Gli studenti internazionali di Relational Design

Cambiare non solo città ma addirittura continente per inseguire i propri sogni e cogliere nuove opportunità: questa è la storia di Mirielle Esther Robles, architetto, volata da Panama a Milano per studiare Relational Design.

What brought you to Italy?
Being honest: my whole life dream, at first! I always wanted to come here just to be able to go around and learn the language. Then, the opportunity to work for an incredible project (999 domande) presented itself and it came with new professional experiences and an incredible team of people to work with, whom I can now call friends!
So far it’s been positively challenging: learning new things about the culture, the city, the people and being able to absorb it has made me a new person somehow. Milan is an amazing city! There is always something happening and as a design capital it keeps you always inspired!

 

What was your idea of the master before actually attending it and what do you think now that you’re at the end of the path?
At first, you focus yourself on the content or the topics of the workshops and modules but it’s only when you start to relate with the other students – and most importantly with the partners and companies you met in the process – that you discover the real thing: Relational Design is mostly about relationships and the people surrounding you and how much you can learn from them!

 

If you had to describe Relational Design in one word, what would it be?
Mobility!
It’s amazing how things change even from city to city (or even in between offices and work methodologies) and for me this is the best way to learn.

 

What was your favorite moment and why?
My favorite workshop in terms of activities was Creative Printing (Editoria Creativa: Analog vs. Digital) with Print Club Torino. And in terms of learning, Design for Urban and Social Innovation with PUSH in Palermo. But the thing I loved the most was being able to travel to a different city every month and to be able to discover it with my pals (and this is also what I miss the most now that it’s over!).

 

Has the master changed you in any way?
Yes! This experience had been a life-changing one, all of it!
After years of working properly on companies it hasn’t being easy to re-learn how to manage yourself in the way of discipline and time, and even now I’m still working on it which is good! Personally, I’m sure I’ll keep for the rest of my life the friendships that were born during this time, and this is unmeasurable!

 

Last but not least: what are you doing now or what are planning for the near future?
Thanks to the Master and the Erasmus+ Program I got an internship with Basurama in Madrid so I’m moving there soon! It is very exiting because I will get the opportunity to enlarge my professional experiences on a whole new level and I’m pretty sure this wouldn’t have been possible if I’d stayed back home in Panama.
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Claudia Busetto e Vincenzo Di Maria: dai prodotti alle esperienze, service design e relazionalità

Claudia Busetto e Vincenzo Di Maria sono i fondatori di commonground, un’organizzazione che porta il design e la progettazione incentrata sull’utente in ambiti di innovazione sociale; saranno nostri docenti per il Summer Camp – Relational Service Design, negli spazi di Impact Hub Siracusa, dal 17 al 24 giugno.

 

Service design: quando e perchè l’interesse si è spostato dai prodotti alle esperienze?

In sintesi, compriamo meno prodotti da possedere e consumare e accediamo a più servizi o paghiamo più volentieri per esperienze da vivere.

È un percorso strettamente legato ai cambiamenti socio-economici dell’età contemporanea, come il boom economico degli anni 60 ha promosso il design industriale così la crescente importanza del settore terziario ha aperto la strada al design dei servizi. I prodotti non sono scomparsi, ma è aumentato il contorno, la cura del dettaglio e dell’esperienza dell’utente, e i consumatori stessi sono diventati più esigenti.

In Italia oggi i servizi rappresentano il settore più importante dell’economia, sia per numero di occupati che per valore aggiunto, e la tecnologia e internet hanno amplificato questo processo in atto, permettendo la nascita di servizi sempre più smaterializzati: l’home banking, i negozi di e-commerce, fino ad arrivare a piattaforme come netflix in cui non c’è nessuna componente che si possa toccare, ma allo stesso tempo è altissima la richiesta di customizzazione e cura dei dettagli.

 

Quali sono, a vostro avviso, i settori che oggi, più di altri, avrebbero bisogno di questo cambio di prospettiva?

Vivendo in Sicilia viene facile pensare ai servizi infrastrutturali: i trasporti, la ricettività, ma anche tutti i servizi che ruotano intorno all’esperienza turistica, dalle proposte enogastronomiche ai percorsi esperienziali. Ma sono anche i settori in cui più facilmente si sperimenta, perché ci sono clienti pronti a pagare per esperienze sempre più personalizzate e servizi più funzionali. La vera sfida è nella progettazione dei servizi pubblici, dove non abbiamo utenti-clienti, ma cittadini: eppure sono i contesti in cui la progettazione ha un impatto enorme, perché riguarda milioni di persone, con effetti che si riverberano su intere famiglie. Pensiamo per esempio ad azioni comuni e diffuse come fare le analisi del sangue, iscrivere il figlio a scuola, pagare le imposte, quante volte è facile trovarsi intrappolati o bloccati nei meandri della burocrazia o in situazioni intricate? La progettazione non può risolvere tutti i problemi, ma può sicuramente aiutare a migliorare le cose.

E poi ci sono i settori in cui tutto è davvero da costruire, come le esperienze di emergenza sociale e culturale: pensiamo per esempio a tutto ciò che ruota intorno ai fenomeni di migrazione e ai salvataggi in mare, fino ai servizi carenti nelle strutture di prima assistenza. In questi contesti si parla di service design in ottica meno commerciale e si entra nell’ambito dell’innovazione sociale, un mondo in cui il buon design (quello per cui si pagano i professionisti) può portare tanto valore e avere un impatto enorme.

 

Un’anticipazione di quello che approfondiremo durante il vostro Summer Camp: se doveste scegliere un progetto di servizio collaborativo e partecipato dell’ultimo anno come il più interessante e innovativo, quale sarebbe?

Come vedremo durante il summer camp esistono diversi gradi di “relazionalità” all’interno di un servizio: i servizi relazionali al 100%, quelli in cui fornitore e fruitore del servizio e il fuitore coincidono, sono in realtà una minoranza, ma sono sicuramente i più complessi e allo stesso tempo i più delicati, perché si fondano sull’idea che tutti rispettino certe regole, ma allo stesso tempo permettono una libertà di interpretazione e comportamento estreme. Se nei servizi tradizionali il cliente ha sempre ragione è anche perché il fornitore si attiene a regole ferree, ma cosa succede quando dall’altra parte c’è una persona come noi? Progettualmente si possono controllare e prevenire le agenzie immobiliari mascherate su airbnb, ma non per esempio la scortesia di un autista di Uber, o le recensioni bugiarde su tripadvisor. Per un progettista è molto stimolante osservare i risvolti inaspettati, analizzare i mille modi in cui le persone possono usare o abusare di un servizio.

Un servizio relazionale al cubo è https://gnammo.com/, o in generale le piattaforme di social eating, perché il valore dell’offerta non è legato solo al cibo, ma a qualcosa di profondamente immateriale come il piacere di mangiare insieme: paghiamo per una cena, ma anche per un potenziale nuovo legame con una persona, per un’esperienza speciale che magari si ripeterà. E se pensiamo al social eating è interessante notare che non si tratta di idee “nuove”, perché per esempio i Paladar (ristoranti casalinghi) sono diffusi a Cuba da almeno 30 anni, permettendo a molte famiglie di sostentarsi aggirando la crisi economica, e ai turisti di avere un assaggio di vera atmosfera locale. Insomma il bisogno di socialità o di sharing economy c’è forse sempre stato, quello che cambia oggi è il ruolo della tecnologia, che amplifica e avvicina, rendendo sempre più facili e accessibili le interazioni.
Claudia Busetto & Vincenzo Di Maria, commonground