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BienNoLo, l’arte contemporanea che genera innovazione sociale. Intervista a Gianni Romano

Foto: Fabrizio Stipari

Dal 17 al 26 maggio 2019 negli spazi dell’Ex Laboratorio Panettoni Giovanni Cova a Milano si terrà la prima edizione di BienNoLo, la biennale d’arte contemporanea di NoLo, il distretto multietnico della creatività nella periferia nord-est di Milano.
Ne abbiamo parlato con Gianni Romano.

Che cos’è e come nasce BieNoLo?
Negli ultimi anni con ArtCityLab – associazione culturale che abbiamo fondato nel 2015 con Rossana Ciocca – ci siamo impegnati a realizzare progetti di arte pubblica, opere non “protette” da un contesto istituzionale o familiare, dal ristretto circolo del mondo dell’arte, ma esposte alla verifica del territorio, pronte a dimostrare una propria componente educativa o a non lasciare alcun segno, a durare soltanto lo spazio di un passaggio. L’esperienza maturata in questi pochi anni sul territorio milanese, la reazione di un pubblico che è sempre imprevisto, ci ha fatto capire quanto in realtà ogni città abbia bisogno di un ArtCityLab, di un laboratorio permanente, che faccia capire alle varie componenti istituzionali e professionali che innovazione culturale significa innovazione sociale.

Eppure Milano vista da fuori sembra un contesto privilegiato, dove succede di tutto, dove non mancano le proposte. Magari mancava una Biennale d’Arte?
Devo ammettere che questa è una domanda che mi fanno appena esco da Milano. Vivere in un centro urbano già ricco di iniziative non significa che non ci sia altro da fare. Una mostra come BienNoLo vuole dare visibilità ad un grande laboratorio culturale che raramente trova diritto di cronaca nel racconto della città modello che negli ultimi anni è diventata Milano. In ogni ambito della creatività si tende a guardare alla cima senza considerare che questa è il frutto di tantissime persone che contribuiscono ad arricchire quel campo. Se spostiamo l’attenzione dall’arte alla moda questo è ancora più evidente: da una parte i grandi nomi che sono sotto gli occhi di tutti, ma la base è molto larga ed è composta da persone e piccoli marchi che magari lavorano anche con grandi aziende e da altre che hanno vita propria e spesso per un pubblico giovane sono l’unica realtà frequentata. Insomma, non c’è altezza senza base. Curando questa prima edizione di BienNoLo abbiamo voluto restituire al grande pubblico l’immagine di una biennale che mira a registrare e presentare il lavoro svolto negli studi da artisti scelti grazie alle nostre conoscenze, alla loro attività degli ultimi anni, ma anche in base ai limiti che lo spazio della mostra pone a chi si appresta a lavorarci. Certamente le caratteristiche dello spazio industriale che ospita l’esposizione, la mancanza di corrente elettrica, grandi spazi senza tetto e la presenza di vegetazione spontanea, hanno costituito un motivo di selezione più forte di ogni moda corrente.

A proposito dello spazio espositivo, dicci di più sulla location scelta e sul quartiere che la ospita. 
L’ex Laboratorio Panettoni Cova, in una traversa di Viale Monza, è un bellissimo esempio di archeologia industriale. Si tratta di uno spazio già noto agli amanti del design durante il Salone del Mobile. È abbastanza complicato trovare un luogo adatto per tanti artisti, soprattutto se esci dai soliti luoghi nati per presentare mostre. Eppure la storia dell’arte è anche una storia di luoghi (non solo di città), dalle mostre degli impressionisti nello studio del fotografo Nadar a quelle negli appartamenti (tipiche di luoghi in cui manca un sistema dell’arte e che l’attuale crisi economica ha fatto tornare in auge),  dalle mostre nei garage a quelle nelle stanze d’albergo. Hans-Ulrich Obrist realizzò la sua prima mostra nel frigorifero di casa sua! Ogni luogo è deputato all’arte, purché la presenza dell’arte comporti una presenza di senso, perché l’arte sia contemporanea non serve solo presentare l’arte nuova, ma anche a ricordarci ciò che facciamo e ciò che siamo.

Tu sei uno dei quattro curatori: come avete lavorato al progetto?
L’idea di fare una BienNoLo nasce da un invito di Carlo Vanoni, al quale ArtCityLab ha aggiunto Matteo Bergamini. Carlo è autore teatrale e autentico divulgatore dell’arte, com’è evidente dai suoi spettacoli e dal libro A piedi nudi nell’arte appena uscito per Solferino Libri, ma anche dal modo in cui usa i social. Matteo Bergamini è direttore della rivista Exibart ma lo vedo in giro per gallerie da anni, è abituato al clima vivace dell’arte giovane per cui la curatela diventa quasi una pausa di riflessione… Ognuno di noi ha un suo stile che corrisponde al modo in cui ci siamo formati. Per una mostra come questa il vantaggio è stato quello di potersi dividere i compiti, mentre di solito il singolo curatore deve potersi fidare di assistenti capaci. La struttura curatoriale di BienNoLo non è piramidale invece, ci sono quattro curatori e una base di volontari che abbiamo diviso tra logistica, comunicazione e presenza sul campo. Lo spirito di collaborazione e il coinvolgimento del quartiere di Nolo sono la cosa più bella di BienNoLo: pensa che un gruppo di artisti si è associato nel progetto Habitat e quando la mostra chiude alle 20:00 loro aprono i propri studi al pubblico.

Il titolo di questa prima edizione è “eptacaidefobia”: cosa significa e in che modo si lega alle opere, alle installazioni e agli artisti presenti?
Eptacaidefobia è una parola greca. Sembra uno scioglilingua, ma si riferisce alla paura del numero 17. Proprio il 17 maggio c’è l’opening della mostra e quindi abbiamo preso questa fobia dal carattere folcloristico come esempio di tutte le paure, invitando gli artisti a mettere in scena una fobia contro qualsiasi tipo di paura. Naturalmente ci sono paure personali che diventano collettive, come accade alla cronaca dei nostri giorni, e altre che sono figlie di percorsi interiori.

BieNoLo si terrà dal 17 al 26 maggio 2019 negli spazi dell’Ex Laboratorio Panettoni Giovanni Cova, in via Popoli Uniti 11 a Milano.
Visita il sito ufficiale

Gianni Romano fotografato da Fabrizio Stipari
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Print Club Torino: “sporcarsi le mani” e far emergere la cultura creativa

Architetto, pittore, scultore, graphic designer, fondatore del Print Club Torino, curatore dei Torino Graphic Days e docente di Editoria Creativa all’interno del Master Relational Design: abbiamo intervistato il poliedrico Fabio Guida!

 

Cos’è un Print Club?
“Print Club” non è un marchio riconosciuto ufficialmente a livello nazionale o internazionale, tuttavia con questo termine intendiamo i laboratori nati spontaneamente in vari paesi d’Europa e del mondo dedicati alle diverse tecniche di stampa come risograph, serigrafia, letterpress e tante altre. Esistono molti Print Club nel mondo, ma il nostro è la prima realtà che ha intrapreso la mission di provare a riunirli tutti all’interno della stessa rete. A partire dall’anno scorso, infatti, abbiamo avviato alcuni canali di comunicazione con gli altri attori, promuovendo mostre e scambi internazionali, sia di materiali, sia di persone. In alcuni casi, come il nostro o quello dell’Urban Spree di Berlino, il Print Club è anche l’ente organizzatore di un festival dedicato al graphic design, per cui ha un team che lavora tutto l’anno per avere un momento di restituzione pubblica, la manifestazione, in cui venga sancita questa volontà di scambio e confronto. Festival come Torino Graphic Days o Berlin Graphic Days rappresentano grandissime opportunità per sensibilizzare pubblici diversi al tema del graphic design e delle arti visive in generale.


Le competenze del vostro team sono diverse e non tutte provengono dal mondo della grafica o della progettazione in generale. Cosa vi ha spinto a creare un luogo del genere? E perché a Torino?
Quella di creare un laboratorio di sperimentazione e arti grafiche è stata un’esigenza scaturita dal poter avere a disposizione un luogo di contaminazione tra competenze e professionalità diverse, valorizzando l’artigianalità intesa come recupero di tutte quelle attività legate al mondo dell’editoria e della stampa che negli ultimi anni si sono indebolite e rischiano di andare perdute.
Il nostro progetto, Print Club Torino, nasce nel 2015 proprio dalla volontà di creare uno spazio in cui si potesse fare sperimentazione grafica avendo a disposizione dei macchinari che altrimenti sarebbero stati difficilmente reperibili per l’utente all’interno del medesimo luogo. Il laboratorio, fondato dalle associazioni culturali Plug e Try Again Lab, risponde quindi all’esigenza di studenti, giovani artisti e professionisti del settore, di procedere in autonomia alla realizzazione dei propri progetti grafici senza l’intervento di intermediari, ma “sporcandosi le mani” in prima persona.
La mission di Print Club Torino però non si esaurisce nella costituzione di un luogo fisico, ma intende essere una comunità che faccia emergere la cultura creativa torinese capace di coinvolgere, da un lato, scuole, imprese ed enti istituzionali, dall’altro gli attori della rete internazionale.


Il laboratorio nasce all’interno di una struttura molto particolare: ToolBox. Come funziona e come ha influito sul vostro percorso?
Il Toolbox è il primo coworking di Torino: uno spazio nato dalla rigenerazione di una vecchia fabbrica manifatturiera dove confluiscono una grandissima varietà di professionalità e percorsi che danno vita a nuove relazioni. Ciascuno occupa una parte di questo spazio a seconda delle proprie necessità e disponibilità ma la vera risorsa è rappresentata dalle parti comuni (sale conferenze, luoghi di incontro informali, ampi spazi liberi) e dai tanti momenti di confronto trasversale fra le attività. Ad esempio qui si organizza una giornata annuale dedicata ai freelance, con un fittissimo programma di incontri, qui risiedono importanti aziende tecnologiche internazionali come Arduino o laboratori di ricerca del Politecnico di Torino. Questa ricchezza eterogenea di contenuti ci permette di venire a contatto con moltissime realtà e di partecipare attivamente agli eventi e manifestazioni promosse da Toolbox. Inoltre, durante i Torino Graphic Days, abbiamo l’opportunità di colonizzare ed allestire l’intera struttura con le nostre esposizioni, performance, talk e attività con il pubblico.


Quanto è importante per voi ridurre l’impatto ambientale del vostro laboratorio? Quali sono le vostre politiche a riguardo?
Siamo sensibili all’argomento e cerchiamo di attivare dei processi che tendano a ridurre gli scarti non generale. In particolare utilizziamo solo inchiostri a base acqua per la serigrafia, andando ad eliminare quindi odori e parti tossiche legate ai solventi, nonché al loro smaltimento e pulizia. Abbiamo installato un anno fa un impianto di ricircolo delle acque a circuito chiuso che ci permette di non scaricare i residui delle nostre lavorazioni (lavaggi telai ad esempio) direttamente nelle fogne ma di stoccare le acque, e poi smaltire con una ditta specializzata. Interventi di questo tipo sono investimenti molto importanti ma necessari se si tende ad una riduzione dell’impatto ambientale significativo.


Sei il curatore dei Torino Graphic Days. Parlacene!
Torino Graphic Days è una kermesse internazionale di quattro giorni interamente dedicata al visual design che ogni anno, nel mese di ottobre, ospita un fitto calendario di appuntamenti, tra cui workshop, conferenze, performance, mostre, dj-set e una mostra-mercato con artisti e professionisti internazionali.
La manifestazione nasce con l’intento di accorciare le distanze fra i non addetti ai lavori e il mondo del visual design, portando a Torino gli artisti più interessanti del panorama europeo della comunicazione visiva.
Nel mese che precede il festival, l’organizzazione dedica alla scena culturale torinese un palinsesto di appuntamenti diffusi in diverse location della città: il programma “In the city”, infatti, propone un calendario di eventi dedicati alle arti visive che coinvolgono il tessuto cittadino promuovendo le eccellenze torinesi della grafica e della comunicazione.
Il festival ha all’attivo tre edizioni e nel 2018 raggiungerà il quarto capitolo del progetto, ma, in realtà l’iniziativa nasce molto prima. Con l’associazione culturale PLUG – tra gli enti organizzatori di Torino Graphic Days – è dal 2010 che organizziamo conferenze, workshop, contest e mostre con artisti e professionisti internazionali della comunicazione visiva.
Ad oggi, Torino Graphic Days non è più soltanto un festival, ma un progetto a 360 gradi che, oltre alla manifestazione vera e propria, si configura come un calendario di eventi che durano tutto l’anno e come un osservatorio sul visual design capace di dare rilevanza a tutti gli eventi del territorio legati al settore.
Il progetto coinvolge anche le persone più lontane dal mondo del graphic design attraverso l’innovazione sociale e l’engagement: molto spesso i temi espressi dai lavori che includiamo nel festival e nelle iniziative collaterali partono da una necessità sociale, veicolando quindi messaggi positivi e buone pratiche, messaggi potenti, talvolta provocatori. Il coinvolgimento dell’audience passa dunque attraverso attività che invitano alla riflessione, che fungano da stimolo per l’attivazione di processi in grado di indurre a modificare il proprio comportamento in maniera positiva rispetto ad una determinata tematica.


Che relazione c’è fra un laboratorio creativo di stampa e arti grafiche e il master?
Molto spesso le Accademie, i corsi universitari o le scuole in genere assolvono molto bene alla parte teorica del programma ma si trovano in difficoltà nello svolgimento delle parti pratiche. Non sempre sono disponibili laboratori dedicati a più tecniche di stampa, come accade al Print Club, in cui poter fare esperienze trasversali, mixare le soluzioni tecnologiche e fare della sperimentazione per le proprie produzioni artistiche. In questo possiamo essere di supporto; offrendo la strumentazione, un tutoraggio competente e la possibilità di lavorare in team per il raggiungimento di un obiettivo finale, sia esso una produzione artistica, un portfolio personale o un progetto sperimentale. Ci piace parlare di co-progettazione con chi utilizza i nostri servizi.
Le strade del Print Club Torino e di Relational Design si sono incrociate grazie 
a Stefano Mirti, direttore del master, con cui abbiamo attivamente collaborato in più progetti e successivamente grazie a due degli studenti, Nuphah Aunynuphap e Silvia Lanfranchi, che hanno sviluppato il progetto editoriale The New Publishing come tesi del master e iniziato ad utilizzato il nostro laboratorio per le loro autoproduzioni e stampe.


Print Club Torino ha accolto numerosi studenti del master come tirocinanti. In che modo prendono parte alla vita del laboratorio?
Gli studenti del Master, e tutti gli altri nostri tirocinanti, vengono istruiti su tutte le tecniche di stampa presenti in laboratorio sia durante le giornate di workshop, a cui possono prendere parte gratuitamente, sia durante il normale svolgimento delle attività. Inoltre con ciascuno di essi si cerca di costruire un percorso personale che tenga conto delle specifiche ambizioni e competenze e che metta in risalto delle capacità e interessi personali. Il confronto con il pubblico è un’altra delle mansioni su cui vengono formati gli studenti, che saranno presto in grado di accogliere gli utenti del laboratorio e di poter fornire loro le informazioni principali di contatto. Ogni giornata al Print Club si compone in maniera differente e le opportunità per chi vi partecipa sono potenzialmente infinite! 


A dicembre 2018 da Print Club si terrà un nuovo modulo del master: puoi darci qualche anticipazione?
Faremo interagire digitale e analogico facendo sporcare le mani a tutti i partecipanti. Il focus sarà incentrato su come veicolare temi culturali e/o sociali ad un pubblico allargato attraverso l’interazione di tecniche di stampa tradizionali e contemporanee cercando di immaginare sistemi di engagement per coinvolgere il pubblico a essere parte attiva del progetto. Individuate le tematiche su cui operare il workshop utilizzerà gli strumenti messi a disposizione dal Print Club Torino per creare supporti editoriali sperimentando l’interazione di diverse tecniche di stampa. Il progetto prevedrà il collegamento dei supporti analogici creati con sistemi di comunicazione social e digitali in grado di amplificare e diffondere i contenuti.

Scopri di più sul workshop Editoria Creativa: Analog vs. Digital, che si terrà al Print Club dall’11 al 15 dicembre. Le iscrizioni sono aperte!


Fabio Guida

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PUSH, l’innovazione che parte dalle persone – Master Relational Design

Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Toti Di Dio, Mauro Filippi e Domenico Schillaci, fondatori di PUSH e docenti di Service Design all’interno del Master  Relational Design.

Cos’è PUSH e di cosa si occupa?
(D) Ciao! PUSH è un laboratorio di design per l’innovazione urbana con base a Palermo. Progettiamo e sviluppiamo servizi con l’obiettivo di rendere le città più sostenibili e i cittadini più felici e lo facciamo attraverso progetti di ricerca applicata, attività di partecipazione o iniziative di innovazione sociale.
Allo stesso tempo ideiamo programmi di formazione incentrati su questi temi e ogni tanto organizziamo anche qualche evento a Palermo per parlare di cose che ci interessano.
Se resta tempo ci trovate al Monkey Bar in piazza Sant’Anna (sotto il nostro ufficio) a bere un caffè o una birra a seconda dell’ora.

Cosa vuol dire per voi Service Design?
(D) Lo consideriamo un approccio estremamente utile per affrontare criticità e risolvere problemi, che si tratti di migliorare l’esperienza dei cittadini o di facilitare l’interazione tra diversi attori in un determinato contesto.

Avete deciso di intraprendere questa avventura in Sicilia, perché?
(T) PUSH nasce a Palermo nel 2013 con l’ambizione di essere una risposta costruttiva ed efficace alla crisi economica e culturale che si soffre ormai da anni in Italia e soprattutto al Sud. Nasce da siciliani che, dopo aver studiato e lavorato come progettisti in giro per il mondo, sognavano di poter vivere e costruire valore a casa loro.
PUSH è la scommessa di un gruppo di amici si sono ostinati a credere che si possa parlare di “innovazione” e “tecnologia” anche in Sicilia, e che sono anche convinti che su questi due concetti si possa basare una strategia vincente per il rilancio dell’intero territorio. Non bisogna essere Google o IBM per spingere all’innovazione un territorio, anzi. Serve solo un po’ di coraggio, metodo e tanta determinazione per farsi artefici di importanti trasformazioni.

Lavorare a Palermo pensiate abbia reso il vostro lavoro più difficile o più stimolante? (T) La scelta di Palermo non è stata casuale: per alcuni di noi è la città natale (per gli altri, trapanesi e alcamesi, ormai una seconda casa), quella in cui desideriamo lavorare, ma soprattutto è uno di quei luoghi “a margine” in cui poter testare soluzioni e progetti. Palermo è un luogo ricchissimo, ha una storia sconfinata e talenti eccezionali, ma ha anche troppe criticità che vogliamo risolvere e affrontare, poco a poco. Ci ripetiamo sempre che se un progetto funziona a Palermo può funzionare dappertutto. Le difficoltà in questi anni non sono di certo mancate e spesso non abbiamo trovato il supporto necessario o abbiamo dovuto penare per ottenerlo, ma è stato sempre stimolante e nonostante tutto siamo riusciti a tirare fuori e testare a Palermo progetti che ci hanno consentito sì di restare legati al territorio, ma anche di avvicinarci tanto all’Europa e al resto del pianeta. Questo è un modo per ridare a Palermo qualcosa e che ci fa sentire meno soli.

Al centro di molti dei vostri progetti mettete le persone e le comunità di cui fanno parte. Quale di questi vi ha restituito di più a livello personale?
(M) Lavorare con le comunità di quartiere ci ha sempre regalato grandi soddisfazioni, restituendoci un bagaglio di esperienze davvero difficile da quantificare. Comunità però sono state anche in un certo senso quelle degli studenti e dei partecipanti ai nostri corsi e ai laboratori: le “intensive school” o le “service jam” che abbiamo co-progettato e realizzato in rete ad esempio sono stati dei momenti di profondo scambio e crescita professionale. Utente, cittadino o studente, il nostro principale interlocutore è sempre la persona.   

Di recente un vostro progetto, Borgo Vecchio Factory, ha ricevuto la menzione d’onore dalla giuria del Premio Compasso d’Oro ADI 2018. Diteci di più!
(M) Borgo Vecchio Factory per noi rappresenta una delle prime vere sperimentazioni progettuali su scala urbana e di quartiere: un progetto bottom-up che mette insieme tecnologia (crowdfunding), arte (street art) ed educazione (workshop). In partnership con l’associazione Per Esempio – che da anni si occupa di educazione non formale nel quartiere Borgo Vecchio di Palermo per far fronte al problema della dispersione scolastica – abbiamo ideato insieme allo street artist comasco Ema Jons un ciclo di laboratori di arte urbana con il coinvolgimento di vari artisti. La campagna di crowdfunding ha ottenuto in un mese il 170% del monte richiesto e ha permesso di sperimentare nel quartiere una pratica di coinvolgimento e animazione del che ha dato vita in poco tempo ad un vero e proprio museo a cielo aperto tra le vie. Sono stati realizzati circa 30 grandi murales, coinvolti una sessantina di bambini di varie fasce d’età, riqualificato il campetto di calcio e tenuti dei workshop di ricamo, poster art, restauro creativo, disegno e pittura.  

Come entrano in gioco le nuove tecnologie nei progetti di Service Design per le comunità?
Attraverso la tecnologia PUSH cerca di stimolare l’interazione con le comunità attraverso la tecnologia. Attraverso il progetto Sant’Anna Jamming ad esempio, dopo un workshop che ha visto coinvolti vari studenti di architettura e design per riattivare Piazza Sant’Anna all’indomani della pedonalizzazione, è stata coinvolta la cittadinanza nella votazione del progetto migliore da proporre poi all’amministrazione comunale. Con il progetto Open Tour sono stati utilizzati i dati messi a disposizione dal comune di Palermo per offrire un servizio gratuito di mappature dei punti di interesse culturale ed è stata data ai cittadini la possibilità di contribuire con segnalazioni e datathon. Il progetto ha poi avuto un seguito a Milano e presto anche a Bari. E infine il crowdfunding, che è servito a finanziare dal basso due progetti in aree marginali, come nel caso di Borgo Vecchio Factory e di Danisinni Circus (all’interno del più ampio progetto Rambla Papireto).

Nel vostro lavoro non c’è solo la progettazione: spesso siete impegnati in attività didattiche come il Master Relational Design o altri workshop in Italia e all’estero, dove in pochi giorni – o addirittura poche ore – dovete riuscire a trasmettere un metodo ai vostri studenti. Qual è il vostro approccio all’insegnamento?
(D) Semplicemente cerchiamo di trasmettere quello che impariamo ogni giorno con il nostro lavoro e la nostra attività di ricerca. Per noi è un’attività molto utile perché ci consente di sintetizzare e organizzare tutte le informazioni, i casi studio e gli strumenti che quotidianamente utilizziamo in modo coerente e allo stesso modo in un certo senso ci obbliga a restare sempre aggiornati, il che nel nostro ambito è un aspetto fondamentale.
L’attività didattica ci piace davvero tanto perché ci consente ogni volta di provare qualcosa di nuovo e non esagero quando dico che per noi è anche un modo per imparare tanto. Il nostro approccio è molto informale e incentrato sull’azione: che si tratti di costruire un prototipo, intervistare delle persone, disegnare un’interfaccia o girare un video solo realizzando qualcosa e testandola si riesce a capire se può funzionare davvero.  

A proposito del master: proprio quest’anno avete tenuto a Palermo il summer camp Design for Urban & Social Innovation, in cui molti degli studenti venivano da altre città d’Italia o addirittura da altre nazioni: parlateci di questa esperienza e di come avete affrontato questa “sfida”.
(D) Ci piaceva l’idea di utilizzare Palermo come playground per gli studenti, quindi, dopo aver passato la prima giornata a girare la città incontrando imprenditori, attivisti e artisti locali abbiamo chiesto loro di individuare uno specifico bisogno e di progettare un servizio che fosse in grado di risolverlo.  Naturalmente all’inizio c’è stato un po’ di smarrimento, del resto non è facile calarsi da subito in un contesto urbano nuovo e comprenderne dinamiche e relazioni, così come riuscire a individuare le informazioni chiave quando si è bombardati da una enorme quantità di input, ma anche questo fa parte del processo su cui vogliamo che i ragazzi si confrontino.
È stato bello vedere giovani provenienti da tante realtà diverse confrontarsi con la nostra città, cercare di capirla e sforzarsi per pensare a qualcosa che possa produrre un cambiamento positivo in così pochi giorni; è stato stancante ma alla fine eravamo tutti soddisfatti e crediamo che questa sia la cosa più importante.

Qual è la connessione fra il Service Design e il Relational Design?
(D) Qualsiasi servizio ha come obiettivo quello di offrire ai chi lo utilizza la migliore esperienza possibile; ogni esperienza a sua volta si basa su una serie di relazioni e interazioni. In quest’ottica è fondamentale essere in grado di progettare con e non solo per le persone, conoscere bene i nuovi media digitali ed essere in grado di comunicare in modo chiaro ed efficace; per questo approfondire il design delle relazioni è importante. Per il prossimo anno abbiamo in programma un nuovo modulo all’interno del Master Relational Design ma preferiamo non svelare nulla, anche perché l’effetto sorpresa è una delle cose su cui puntiamo! L’unica cosa che possiamo dire è che sarà diverso da quello dello scorso anno e come ogni volta cercheremo di proporre qualcosa di nuovo.

 

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